Patriottismo e mal d’animo
(Ragion Politica, 15 maggio 2004)
E’ difficile spiegare agli italiani il sentimento del patriottismo
degli americani. Quest’ultima settimana ho vissuto in uno stato di
negazione e di indignazione. Il mio amor di patria soffriva di mal
d’animo. Non ho voluto vedere le foto delle torture, non ho potuto
leggere gli elenchi delle sevizie compiute sui prigionieri. Non volevo
credere che tutto ciò che si stava svelando fosse successo sul serio.
Naturalmente, però, non ho potuto evitare di vedere, di sentire, di
leggere. Ma anche dopo aver visto e sentito e letto, non potevo, non
volevo, lo stesso, credere. Saranno fotomontaggi, speravo, nel mio
stato di rifiuto.
Solo altre due volte ho provato queste due emozioni, negazione
e indignazione, in relazione alla mia Patria. La prima, la negazione,
dopo l’11 settembre, per un certo periodo credo che sono rimasta sotto choc.
Ero perfettamente funzionale, come un robot, ma non riuscivo ad accettare
la realtà. La seconda, l’indignazione, dopo il fiasco delle
elezioni in Florida del 2000. Per la prima volta in più di vent’anni
non votai per “absentee ballot”, ma di persona, perché rimasi per
più di un anno negli Stati Uniti. Io ero in Florida prima delle
elezioni, votai io in Florida con quelle schede un po’ sballate, e vissi
in prima persona tutti i pasticci voluti ed accidentali di quelle elezioni.
Non è un bel capitolo della storia degli Stati Uniti. Non sapevo
allora, come non so adesso, da quale pulpito avrei più potuto predicare
la quintessenza della democrazia pur imperfetta del mio Paese.
In questi giorni non mi confortavano le persone che mi dicevono
che da quando il mondo è mondo sono esistite le torture, che solo
noi americani siamo capaci a farci beccare con le foto, che non erano vere
torture quelle ma atti di nonnismo. Non mi consolava l’editoriale di
Renzo Foa che ci ha raccontato come François Mitterand fu capace di
ben peggio, che non si trattava poi di ragazzi soldati fuori controllo, ma
torture programmate, istituzionalizzate. Non mi rincuorava la rubrica
di Filippo Facci in cui ci informava dell’esistenza di un museo a Milano
dove si può inorridire oltre l’immaginabile vedendo quanta fantasia
e talento artigianale furono usati per infliggere torture durante l’inquisizione
italiana.
Non soffrivo né per le vittime, né tanto per la
pur forte consapevolezza di tutte le conseguenze che seguiranno, soprattutto
i passi indietro del piano di democratizzazione dell’area e il pane per i
denti velenosissimi degli antiamericani di casa nostra. Non era tutto
ciò la fonte del mio disagio. Era il mio patriottismo che soffriva
di mal d’animo. Lo avrà provato il mio amico Paolo Guzzanti
per empatia verso la sua deliziosa moglie americana. L’ho ha capito
Alberto Pasolini Zanelli quando ha scritto, “La grande forza degli Stati
Uniti è la possibilità di preservare quella inimitabile anima.”
Poi ho sentito l’interrogatorio di Rumsfeld davanti alla commissione
del Senato. Una cerimonia durissima celebrata con dolore. Tranne
qualche eccezione di quesito sopra le righe, provocatorio, irrispettoso,
la maggior parte delle domande sono state rivolte all’indagato Rumsfeld in
modo civile e rispettoso, senza per questo schivare le questioni dure da
affrontare, le spiegazioni spietate da pretendere. Le domande erano
dirette e subito al dunque, senza tanti giri di parole. Anzi, chi faceva
girotondi di parole con le loro premesse erano proprio quelli con intenzioni
faziose. Altrettanto brutalmente dirette erano le risposte.
Né i riassunti dei giornali italiani, né le traduzioni
delle trascrizioni, né le traduzioni simultanee possono comunicare
la riverenza di quella cerimonia. Erano la civiltà con la quale
si sono comportati e con la quale hanno condotto l’interrogatorio, la responsabilità
che Rumsfeld si è addossata su di sé, il senso di dovere che
gli impone di non dimettersi, i toni delle voci degli inquirenti e il tono
della voce dell’indagato, la lettura dei loro occhi che esprimevano il mio
stesso disagio, il mio stesso mal d’animo, tutto questo è ciò
che mi ha fatto rincuorare.
Mi sono chiesto in questi giorni come mai nessuno dei miei studenti
mi ha fatto una domanda su quest’argomento. Si vede che col tempo hanno
capito chi sono, intuiranno la mia sofferenza, e scelgono di non mettere
il dito nella piaga del mio animo patriottico.
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