Solo un neo nella diplomazia raggiante di Berlusconi, (Ragion
Politica, 14 maggio 2005)
Berlusconi ci ha fatto sognare per l'Italia la rivoluzione liberale
e purtroppo stiamo ancora sognando. Vuoi, perché l'hanno sloggiato
dal primo mandato col famoso colpo di mano a Napoli e il colpo di Stato bianco
dei governi «Dinissimi». Vuoi perché la sinistra minacciava
di paralizzare il Paese portando la gente in piazza per ogni iniziativa del
governo. Vuoi perché i suoi stessi alleati gli mettevano i bastoni
fra le ruote. Vuoi per mancanza di audacia di andare avanti per la sua, la
nostra strada, come un bulldozer mandando al diavolo tutti i resistenti.
Ma per quanto riguarda la politica estera, la sua stella diplomatica
ha brillato. Il suo ruolo in questi giorni, nel placare le anime agitate
di Bush e Putin, è stato possibile per via dei suoi rapporti di amicizia
coi due, già consolidati da tempo. Grazie a Berlusconi, nel giugno
del 2002 una delle sedie intorno al tavolo a Pratica di Mare alla riunione
annuale dei capi di Stato della Nato era riservata a Putin, cosa di un significato
storico, visto che la Nato fu creata proprio per contenere l'espansione dell'ex
Stato nemico di cui Putin adesso è il capo. Ma il rapporto fra Putin
e Berlusconi nacque già un anno prima, al G8 di Genova. In quell'occasione
Putin confidò, in un tête à tête con Berlusconi,
le tensioni che stavano nascendo nell'opinione pubblica in Russia riguardo
alla politica estera. Berlusconi gli suggerì di confessare a tutto
il gruppo le sue difficoltà e si rivelò poi un consiglio preziosissimo.
E non dimentichiamo la considerazione che Berlusconi fece acquisire all'Italia
con la decisione di partecipare alla missione in Iraq.
C'è però un neo nell'operato della politica estera
del premier che non riesco a spiegarmi. E quando mi trovo d'accordo del tutto
e in tutto con un editoriale di Eugenio Scalfari - non con lo spirito, ma
col contenuto - la cosa mi preoccupa, e parecchio. Anche perché Scalfari
questa volta non ha dovuto arrampicarsi sugli specchi inventando le sue solite
calunnie indegne. E' stato Berlusconi a fornirgli su un piatto d'argento
i suoi peccati dalla A alla Z riguardo all'operazione «salva-Sgrena».
Cominciamo con la decisione di andare contro la regola di non
trattare con i sequestratori e di non pagare riscatti. Come negare la «duplice
strategia» che denuncia Scalfari? «Non si tratta, ma si tratta.
Nessun riscatto tranne quello pagato ai negoziatori iracheni a titolo, diciamo
così, di rimborso spese». E' amaramente molto eloquente questo
chiamarlo «rimborso spese». Eh, sì. Quanti prossimi attentanti
suicidi contro i soldati americani, contro i soldati italiani e contro i
civili iracheni serviranno a finanziare tutti quei milioni di dollari? Mi
dicono: «Qui siamo in Italia. Non si poteva fare altrimenti. Bisognava
per forza salvarla». Non vedo perché gli ostaggi italiani debbano
essere diversi non solo da quelli americani e quelli britannici, ma anche
da quelli polacchi o quelli coreani o quelli giapponesi. E non credo che
il popolo italiano sia così diverso come si vuol dare a credere. Almeno
non a giudicare dalle lettere dei lettori di Libero, de Il Giornale e delle
tante mailing list dell'elettorato del centrodestra che girano su internet.
Essi non sono affatto d'accordo che il governo si sia speso in tempo e denaro
per salvare persone che non erano in Iraq a contribuire all'impegno comune
per la democratizzazione e costruzione del Paese, ma - anzi - confabulavano
e combriccolavano col nemico.
Allora per soddisfare chi si sono sprecati tanti sforzi umani
e valutari? Per placare la sinistra implacabile? Si fanno una bella risata!
Non è bastata la lezione delle due Simone che disprezzavano chi le
aveva salvate e amavano i loro sequestratori, tant'è vero che non
vedevano l'ora di tornare fra le loro braccia? A quale scopo un'operazione
dei servizi segreti diventa tutt'altro che segreta, ma palesemente gestita
nella sua fase finale da Palazzo Chigi, in compagnia del compagno della Sgrena
e del direttore del Manifesto, se non, come insinua Scalfari, per la volontà
di «apparire» e ricevere l'applauso dell'opinione pubblica congiunta,
presumibilmente unita per celebrare il momento della liberazione vittoriosa?
Perché fare la voce grossa contro gli americani dopo l'incidente
quando si è capito subito che poteva trattarsi solo appunto di un
incidente? A che serve che la magistratura italiana sprechi altro tempo e
denaro per scoprire ciò che già si sa? E' proprio necessario
mettere a confronto l'avventatezza degli americani con la sbadataggine degli
italiani? L'avventatezza da parte degli americani si spiega con mille attenuanti:
15 mila attacchi terroristici in 2 anni con circa 1500 morti, la pericolosità
della strada che porta all'aeroporto, la più rischiosa di tutta Baghdad,
135 attacchi in quella strada, due terzi dei quali commessi fra le 19 e le
21 (Calipari è morto alle ore 20,30). Per di più, il mandato
di servizio della pattuglia responsabile quella sera era stato prolungato
e gli americani avevano perso due soldati negli ultimi giorni in seguito
ad attacchi imprevisti. E ancora, il passaggio dell'ambasciatore Negroponte
era previsto per quella sera e già si erano sentiti alcuni spari in
zona. Giustificazioni per un nervosismo quanto basta, mi pare.
C'era davvero da mettere in dubbio che l'auto degli italiani avesse
superato i limiti prescritti dalle regole di ingaggio? Avevamo veramente
bisogno di rilevazioni satellitari per determinare che è perfettamente
plausibile che «velocità moderata» per un italiano può
benissimo coniugarsi con «velocità accelerata» nella percezione
di un americano? Era il caso di rischiare di mettere a repentaglio il rapporto
fra alleati per soddisfare la sinistra insaziabile nel seminare l'odio? O
regalare altra manna alla mano di Scalfari?
Un cosa mi sembra chiara: che sia in politica estera o in quella
interna Berlusconi sbaglia solo quando cerca di coniugare il suo senso delle
cose con quello della sinistra o coi suoi alleati scontrosi; coniugazioni
che, il più delle volte, sono inconiugabili.
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