Nei dibattiti tra Bush e Kerry vince solo la noia,
(Il Giornale, 20 ottobre 2004)
Quest’anno il pubblico americano e il pubblico mondiale stanno
seguendo i dibatti presidenziali negli Stati Uniti con più interesse
che in passato. Inutile dire perché. La situazione internazionale
rende difficile esserne indifferente.
Pare che gli italiani trovino affascinante tutta la puntigliosa
organizzazione che ci sta dietro, così diversa dalle campagne sregolate
e chiassose di casa Italia. E’ vero che fa una certa impressione sentire
la recitazione di tutte le regole concordate dalle due parti, con nulla lasciato
all’azzardo e all’improvvisazione. Formati diversi, in città
diverse, con moderatori diversi. Con un lancio di moneta si decide
a chi tocca per primo, e così pure per i discorsi di chiusura.
Tempi di risposta e controrisposte circoscrittissimi. Un pubblico presente
in sala, ma silenziosissimo. I candidati, i moderatori, il pubblico,
tutti che aderiscono rigorosamente alle regole.
E’ impossibile immaginare una scena simile in Italia dove non
solo i candidati affogano le parole dell’uno e dell’altro in un frastuono
incomprensibile, ma dove spesso sono gli stessi moderatori ad interrompere
e ad aggiungere la loro confusione a quella generale.
Certo che quest’anno, però, i due candidati sono di una
inadeguatezza stravolgente e sconcertante. Nelle elezioni del 2004,
come già in quelle del 2000, abbiamo e abbiamo avuto una scelta imbarazzante.
Fa venire una grande nostalgia per le due elezioni precedenti quando invece
ad una scelta imbarazzante c’era l’imbarazzo della scelta. Sì,
perché nel 1992 quando c’era George Bush padre contro Bill Clinton,
non era facile da decidere per gli elettori indipendenti. Due uomini
intelligentissimi, veri conoscitori del mondo e con un senso di umorismo
da vendere. Decidere fra i due era un’agonia deliziosa. La stessa
cosa nel 1996 quando si affrontavano Bill Clinton e Bob Dole, un’altra gara
ad altissimo livello fra qualità intellettive, conoscenze e spirito.
Era stato un altro dilemma piacevolmente difficile
Quest’anno c’è poca delizia e poco da decidere. Come
si può dare il voto ad un candidato che ha votato in favore di una
guerra che adesso definisce guerra sbagliata, posto sbagliato, momento sbagliato?
Come si può appoggiare chi ha votato a favore dell’intervento, ma
contro il suo finanziamento, e poi incolpa l’avversario per non aver dato
ai soldati forniture adeguate? Come si può dare fiducia a chi,
dopo aver detto tutto ciò e dopo aver insultato i nostri alleati,
pretende che sarebbe lui più in grado di convincere altri alleati
a darci una mano in quella guerra così sbagliata, in quel posto così
sbagliato, in questo momento così sbagliato? Come votare per
qualcuno che dice solo ciò che possa convenirgli e che cambia convinzione
come cambia le calze?
Dall’altro candidato, però, oltre alla sua saldezza e risolutezza,
sarebbe bello sentire un po’ di conoscenza delle cose, un fiume di fatti,
la prontezza della parola, la brillantezza della battuta che si sente non
da lui, ma dal suo vice: Dick Cheney.
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