Italian Perspectives                                         
by Sandra Giovanna Giacomazzi 

Diario Extracomunitario / Come ti strumentalizzo l’iracheno (L'Opinione, 27 maggio 2003)

Recentemente l’autore iracheno, Younis Tawfik, è venuto alla mia scuola per fare una conferenza.  Il suo libro, “La straniera”, era stata assegnato come lettura facoltativa da un insegnante d’italiano, e si è pensato bene di approfittare del fatto che l’autore iracheno sia residente nella nostra città per invitarlo a parlare coi nostri ragazzi.  Avendo visto in televisione e letto sulla stampa i suoi interventi riguardo alla guerra nel suo Paese, ero curiosa di vedere se e come il suo discorso sarebbe passato dal letterario al politico.

Devo dire che fino quasi alla fine ha parlato solo di cose che riguardavano il suo libro e che incuriosiscono i lettori come la nascità di un libro e la connessione fra i contenuti e la vita privata e le esperienze degli autori.  Così ci ha raccontato come gli è nata l’idea e come ha raccolto insieme tanti fatti veri per creare questa sua opera di fiction.  Ha spiegato la differenza fra le persone che immigravano vent’anni fa, come lui, per studiare, “immigrati di serie A”, e quegli che immigrano oggi per lavorare o per la disperazione, “immigrati di serie B”.  Ho apprezzato molto il fatto che abbia paragonato quelli di serie B agli immigrati che provenivano dal sud Italia negli anni sessanta e settanta, anche se, visto che c’era, avrebbe potuto puntualizzare il fatto che gli immigrati stranieri di serie B di oggi sono trattati molto meglio di quanto non siano stati trattati tanti italiani che venivano allora dal meridione.

Ci ha raccontato le tappe biografiche più importanti per aiutarci a capire l’essenza del suo lavoro:  Come era venuto in Italia perché voleva studiare una versione della Divina Commedia di Dante che non fosse censurata.  Come dopo aver conseguito una laurea in filosofia sarebbe dovuto tornare nel suo Paese. Come ha scelto di non farlo per due motivi:  Uno, perché dopo aver vissuto ed acquisito come propri i diritti e le libertà della nostra società, non riusciva a concepire una vita sotto la dittatura.  E due, perché a metà degli anni 80, tornato nel suo Paese, sarebbe stato costretto a brandire le armi e combattere nella guerra contro l’Iran, cosa di cui non sarebbe stato capace.

Solo alla fine il suo discorso ha valicato il politico, provocato da una domanda da parte di una studentessa, “Crede che attraverso la lettura della letteratura di culture diverse, i popoli possono imparare a capirsi e quindi che sia un modo per raggiungere la pace?”

Nella lunghissima risposta a questa domanda, sembrava che avrebbe volato in alto evitando di toccare l’argomento dell’intervento militare.  Invece, ad un certo punto, ha detto che lui era contro la guerra perché è contro tutte le guerre.  Poi ha detto che comunque bisognava guardare avanti e che lui auspicava un ruolo molto importante per l’Europa, perché si sa “gli americani sanno fare molto bene la guerra, ma di cultura, non capiscono niente,” guadagnandosi così l’applauso garantito e gratuito di chi critica gli Stati Uniti.  Poi ha raccontato che presto aveva intenzione di tornare nel suo Paese per realizzare un suo sogno:  creare un centro culturale italo-iracheno.

A quel punto, naturalmente, non potevo starmene zitta, come speravo, essendomi già spesa ed esposta tanto sul fronte della scuola in questi giorni di pre-guerra e guerra.  Mi sono alzata, e sono andata a sedermi più vicino al podio dove un gruppo di miei studenti vedendomi mi hanno implorato, “Professoressa, La preghiamo, dica qualcosa.”  E io, “Mi sono avvicinata proprio per questo.”  E così ho preso il microfono e la prima cosa che ho detto è stata, “Sono americana,” tanto per essere chiari!  Poi: “Vivo in Italia da tanto tempo quanto Lei.  E esattamente come Lei, sono venuta in Europa perché assetata di cultura, che effettivamente non mi bastava nel mio Paese.  Trovo molto bello e nobile il progetto di un centro culturale italo-iracheno che Lei propone di realizzare nel suo Paese, e Le auspico che possa attuarlo al più presto.  Però mi sembra di dovere una considerazione:  senza quegli americani che sanno fare così bene la guerra, mi chiedo se mai nella sua vita avrebbe potuto solo pensare a realizzare il suo sogno.”

Per questo mi sono guadagnata io un bell’applauso, non unanime, ma certamente inaspettato!  Tawfik ha costruito, poi, una lunga risposta che è iniziata così: “Io non sono anti-americano.”  Le sue parole saranno state sincere se non veritiere, e credo di averlo costretto un po’ ad arrampicarsi sui vetri.  Una delle tante cose che ha ammesso è che senza un intervento militare, non si poteva rovesciare il regime di Saddam Hussein. Però naturalmente ha criticato il modo in cui è stato fatto l’intervento, senza coinvolgere gli iracheni, dimostrandosi ignorante dei fatti visto che è da molti mesi che i Think Tank di Washington si consultano e si coordinano con importanti esponenti dei 300,000 esuli iracheni negli Stati Uniti e i 4 milioni nel mondo.

Insomma per essere diplomatico ha detto tutto e il contrario di tutto.  Come si fa ad ammettere la necessità di un intervento militare e dichiararsi contro la guerra?  Nessi e connessi che non si congiungono.  Ha parlato del fatto che non si può esportare la democrazia.  Va di moda questa constatazione, dimenticando che è proprio quello che si è fatto in Germania ed in Giappone dopo la seconda guerra mondiale, e con non poco successo.  Non è vero poi che il mio Paese non ha niente da insegnare a nessuno.  Ha la cultura della libertà.  Chiamala poco!

Dopo la conferenza sono andata a scambiare due chiacchiere con l’autore che mi ha confessato di essere stato molto deluso dal modo in cui le sue testimonianze sono state usate e strumentalizzate dalla sinistra italiana per motivi di politica interna.  Forse sarebbe stato molto più utile ed onesto se avesse pronunciato questo suo rammarico in maniera pubblica, anziché in un tête à tête con me.



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