Sete di democrazia: chi la disprezza non ne ha bisogno (L'Opinione, 9 maggio 2003)
Reduce da un mese al fronte della guerra in una scuola pubblica italiana, vorrei raccontare ai lettori di Opinione come ho vissuto da insegnante americana in un liceo non poco schierato e non poco imbevuto di retorica pacifista.
All’indomani dell’inizio dell’intervento militare in Iraq, cogliendo la disposizione dell’assessore al sistema educativo e formativo della Provincia di Torino, Gianni Oliva, di “fermare” la scuola, si è tenuta un’assemblea degli studenti nel liceo dove io insegno. Avrebbe dovuto tenersi solo la mattina, ma si è prolungata per tutta la giornata. Io venerdì lavoro di pomeriggio e quindi non ero a scuola la mattina. Anzi, ero all’ospedale per eseguire alcuni esami in un reparto sotterraneo dove il mio cellulare non riceveva il segnale e quindi solo a mezzogiorno, uscendo dall’ospedale, ho ricevuto gli SMS dei miei studenti che mi pregavano di recarmi a scuola al più presto per far sentire un pensiero diverso da quello unico. Loro avevano provato, ma al di là di qualche eccezione, sono stati azzittiti.
Da ciò che mi hanno raccontato, durante la mattinata i comizi degli studenti recitavano i soliti slogan della pace, contro la guerra, contro Bush, accusando gli Stati Uniti di imperialismo, uni-lateralismo, sete di petrolio, insomma le solite frasi fatte di facile digestione. Gl studenti che hanno cercato di contrapporsi non sono riusciti a farsi ascoltare con l’eccezione di una ragazza albanese, che ha espresso la sua gratitudine agli americani che hanno condotto l’intervento della NATO in Kosovo e la sua fiducia nella buona fede degli americani come portatori di libertà e diritti e non di oppressione.
Anche qualche professore è intervenuto, purtroppo con contenuti privi di quello spessore informativo che si potrebbe attendere da loro, ma pregni di carica emotiva e di un inequivoco “no alla guerra sempre senza se e senza ma”. Solo un professore d’italiano ha cercato di alzare il livello del discorso citando Manzoni. Ma subito dopo un’insegnante francese di francese ha pensato ad abbassarlo, prima facendo pubblicità per il suo progetto di formazione chiamato “Costruttori per la Pace,” poi comunicando agli studenti che lei possedeva una lista di prodotti americani da boicottare, forse non violando la legge, ma immagino infrangendo con ciò qualche regola deontologica. Insomma i pacifisti incitano a guerre commerciali, che se condotte con successo, porterebbero alla rovina delle aziende, non pensando che nelle aziende lavorano delle persone che col lavoro mantengono le loro famiglie. E poi sono capaci di farci la predica con la favola dell’embargo!
Arrivata a scuola sono stata assalita, sia da quei pochi che sostengono gli sforzi degli alleati e la necessità dell’intervento, sia da quelli che vanno sempre puntualmente in piazza, che fanno i rappresentanti di istituto e con cui ho collaborato per la loro autogestione. Sia gli uni che gli altri mi chiedevano di tenere una conferenza nel pomeriggio. Era già da un paio di mesi che mi arrivavano richieste da tutte le parti di intervenire in varie conferenze. Fino a quel momento avevo sempre declinato per timidezza. Non avevo mai parlato in pubblico. Era chiaro, però, che questa volta non potevo e non volevo sottrarmi.
Ho iniziato il mio discorso precisando che non avrei fatto un discorso mio, pur avendo naturalmente moltissimo da dire, che avevo anche con me una lunga risposta alle domande mandatemi via e-mail dai miei studenti, ma che per quella volta preferivo non esprimere la mia opinione perché loro, sapendo che io sono americana, potevano facilmente pensare che ciò che dicevo nascesse da un sentimento di patriottismo verso il mio Paese. Ho confessato loro che effettivamente dopo l’11 settembre ho scoperto un patriottismo dormiente in me che neanche sapevo esistesse, essendomi sempre sentita cittadina del mondo. Ma ho assicurato loro che il mio parere non nasceva dal fatto che io sia americana, ma dal ragionamento. Tuttavia, ho detto loro che preferivo in quella sede far sentire le voci di persone che sono veramente parte in causa e ho tirato fuori tre documenti che sono apparsi sulla stampa negli ultimi due mesi precedenti alla guerra.
Il primo: una lettera mandata a “The Guardian” da un medico iracheno in esilio a Londra il giorno prima delle manifestazioni mondiali del 15 febbraio. In questa lettera il medico rimproverava la gente che sarebbe andata in piazza il giorno dopo dicendogli che così facendo non solo non aiutavano il popolo iracheno, ma facevano il gioco di Saddam Hussein e che quando gli iracheni avessero visto le immagini delle manifestazioni in televisione, avrebbero pianto pensando che così si allontanava la speranza di un intervento militare che consideravano l’unica loro salvezza. Gli chiedeva dove fossero quando Saddam Hussein massacrava ripetutamente il suo popolo, e perché non andassero in piazza anche ora, ma contro Saddam Hussein, che non ha mai smesso di torturare il suo popolo.
Ogni tanto mi fermavo per offrire qualche spiegazione storica o geopolitica quando la sinteticità dei testi lo richiedeva. Per esempio, il medico ha precisato che lui non era né curdo né sciita, ma sunnita. E così ho spiegato perché il medico ha fatto questa precisazione. Perché non fa parte dei gruppi etnici che sono stati gasati da Saddam Hussein alla fine degli anni ottanta e massacrati da lui quando gli alleati si ritirarono dopo la prima Guerra del Golfo e prima che si decidessero a creare le due no-fly zones con le quali gli aerei britannici ed americani li proteggono da dodici anni. Lui, invece appartiene allo stesso gruppo etnico di Saddam, e ciò nonostante constatava le nefandezze commesse dal dittatore e la necessità di rovesciarlo con la forza.
Il secondo: un’intervista pubblicata su La Stampa a metà gennaio con il leader dei kurdi nel nord dell’Iraq che diceva che proprio gli italiani, più di chiunque altro, dovrebbero capire che “abbiamo bisogno delle bombe americane, proprio come voi nel 1943”. Esprimeva il suo sgomento per l’irragionevole rigidezza del loro pacifismo. Denunciava come “paradossale” e “inqualificabile” l’atteggiamento degli europei che sono stati liberati dagli americani, che sono intervenuti in Bosnia ed in Kosovo, ma rimanevano ottusi verso la stessa esigenza da parte del popolo iracheno. Implorava loro di ricordare che “la politica dell’appeasement non funziona”. Qui ho fatto un’altra piccola interruzione per spiegare loro la connotazione storica di questa parola inglese che si è intromessa nella lingua italiana, ogni qualvolta che si vuole ricordare e trarre una lezione dall’errore di giudizio commesso dagli europei nel 1938 a Monaco.
Il terzo documento era un articolo scritto da Veton Surroi, direttore del giornale Kosovaro, Koha Ditore, pubblicato da Le Monde e intitolato: I tiranni cadono solo sotto le bombe. In questo articolo il giornalista diceva che sembrava di vivere un déjà-vu. Ricordava come l’Europa andava già in piazza per protestare contro l’intervento della NATO nel suo Paese e senza la quale i suo popolo sarebbe ancora lì a farsi massacrare dagli uomini di Milosevic.
A un certo punto durante la conferenza ha suonato il mio cellulare. E solo da dopo l’11 settembre che faccio parte del mondo dei possessori di cellulare e appena l’ho avuto, pasticciando un po’ per imparare i comandi e i menu, sono capitata sul programma d’impostazione musicale della suoneria. Pensando di occuparmi per un paio di minuti, ho cercato di impostare l’inno nazionale del mio Paese: The Star Spangled Banner. Invece il telefono non è uno strumento musicale quindi non bastava scegliere le note, ma bisognava per ogni nota impostare l’ottava e la durata. Insomma, uno svago che doveva durare un paio di minuti è durato un paio di ore, solo grazie alla mia ostinazione. Quindi quando ha suonato il mio telefono nel bel mezzo del mio discorso, tutti hanno sentito il mio inno. Così, imbarazzata, ma ridendo, ho detto loro, “Vedete perché ho preferito leggere queste testimonianze! Come vi avevo detto dopo l’11 settembre ho scoperto un patriottismo che neanche sapevo fosse presente in me.”
giogia@giogia.com Ritornare alla lista