Cronaca del primo maggio di un rumena in Italia (L’Opinione, 1 maggio 2003)
Il primo maggio dell’anno scorso Erika ha fatto festa lavorando. Era contenta perché la signora dove andava a fare le pulizie non ha fatto il ponte, perciò lei non è stata costretta a rinunciare ad una giornata di lavoro e quindi di guadagno.
Erika, una signora rumena sulla quarantina, era solo da pochi mesi in Italia. Era venuta a guadagnare qualche soldo per poter far studiare il figlio quindicenne, per potergli comprare un computer, perché lui voleva studiare informatica. Guadagna molto di più facendo le pulizie qua che facendo il suo lavoro da impiegata a casa sua.
Finite le sue ore di lavoro la mattina del primo maggio, è tornata in centro dove divide un appartamento con altre rumene. L’autobus non l’ha però portata sotto casa come il solito perché le strade erano tutte bloccate dai manifestanti. Passando a piedi per le vie e le piazze del centro affollatissimo, Erika si è sentita male. Solo a vedere le tante bandiere rosse, con il simbolo della falce e martello, le veniva la pelle d’oca. “Ma come? Noi abbiamo fatto la rivoluzione per non vedere più quei simboli e qui li sfoggiano? Abbiamo pagato con tanti morti nelle nostre piazze per disfarci della tirannia di chi ce li imponeva. Nella striscia centrale della nostra bandiera abbiamo fatto un bel buco in mezzo bruciando via quei simboli. Ancora oggi in Romania ci sono delle bandiere che sventolano col buco.”
Vedeva tutta quella gente gridare i loro slogan e muoversi in modo disordinato, e non capiva come una persona poteva volontariamente partecipare ad una manifestazione di piazza per il primo maggio. Durante tutta la sua infanzia, all’asilo, poi a scuola e in seguito al lavoro, era stata obbligata a partecipare a giornate organizzative in preparazione della manifestazione di quel giorno. Poi, il giorno della “festa” erano obbligati a stare tutti in fila, in modo ordinato, a gridare insieme gli slogan, a cantare, a salutare sorridente e strillare all’unisono “Viva il comunismo!” quando passavano davanti alla tribuna coi capi del partito. Tutti vestiti uguali, con dei numeri addosso, un numero che rappresentava la propria scuola, il proprio posto di lavoro e un altro numero che indicava la propria persona. Una festa finta, una celebrazione contraffatta, una tortura imposta. Guai a chi non partecipava: niente stipendio, ritiro dell’appartamento di stato assegnato, revoca della scheda per le razioni alimentari. Ad Erika sembravano matti quelli che andavano in piazza senza l’obbligo di doverlo fare.
Quando finalmente è arrivata al portone di casa, mentre l’apriva, ha sentito i manifestanti che cantavano l’Internazionale Socialista e le sono venuti i peli diritti dal terrore. È scappata in casa e quando è arrivata fra le sue concittadine, ha detto, “Andate un po’ fuori a vedere quei matti che cantano l’Inno dell’Oppressione.” Nessuna di loro ha osato uscire di casa fina a sera inoltrata.
giogia@giogia.com Ritornare alla lista