Italian
Perspectives
by Sandra Giovanna
Giacomazzi
L’Opinione delle
Libertà, Edizione 175 del
22-08-2006
Quando il “party
switching” è una questione d’onore
Opportunismo politico
di mezza estate comincia il
valzer delle poltrone
di Sandra
Giovanna Giacomazzi
Prima
della pausa ferragostana i presidenti del
Senato e della Camera avevano proposto ricette diverse per risolvere i
problemi
della maggioranza in difficoltà. Franco Marini preferiva la
ricerca di
un’intesa con la Casa delle Libertà, almeno sui grandi temi.
Fausto Bertinotti,
invece, era allineato con Romano Prodi, che suggeriva di avviare il
mercato
delle vacche in Senato per "comprare" qualche esponente della Cdl
disponibile a cedere alle lusinghe magari per un sottosegretariato.
Si
è parlato tanto durante quest’estate di
presunti traditori della Cdl. Essi, però, negavano, e
sembrerebbe che sia stato
davvero un caso di “wishful thinking” da parte della sinistra. Aveva
ragione
Silvio Berlusconi quando chiedeva: “chi è quello che rischia di
andare di là se
poi magari si va alle elezioni e non si ritrova né di qua
né di là?”
Però,
l’abitudine di cambiare partito per il
proprio vantaggio fa talmente parte del comportamento di molti politici
italiani che non sorprende che ci sia chi ipotizza nuovi casi. Quanto
sia
diffuso il fenomeno è comprovato dai tanti termini coloriti per
esprimerlo:
banderuola, girella, voltagabbana, transfuga, chi cambia la casacca e
chi più
ne ha più ne metta. Tutti termini negativi che rilevano quanto
un tale
comportamento sia ritenuto spregevole.
E
spregevole lo è di sicuro, tanto che dovrebbe
essere vietato per legge o per lo meno dai regolamenti delle camere. In
un
sistema proporzionale, soprattutto come quello attuale dove non ci sono
preferenze, gli elettori non votano per i candidati per le loro belle
facce,
per i loro nomi e cognomi: votano per il partito. Quindi se un deputato
o un
senatore non si ritrova più in quel partito, prima di cambiare
casacca,
dovrebbe dimettersi lasciando il suo posto a qualcun’ altro dello
stesso
partito in modo da rispettare la volontà dell’elettorato. Con un
sistema
maggioritario uninominale secco, dove si vota per il candidato
più che per il
partito, cambiare partito non sarebbe considerato così
opportunistico o
scandaloso.
Di fatto
non è che il fenomeno non esista nei
Paesi anglosassoni dove regna il sistema maggioritario. “Party
switching” in
inglese, però, è un termine neutro che non ha nessuna
connotazione negativa.
Negli Stati Uniti, per esempio, è sempre stata un’abitudine
molto diffusa.
Soprattutto in momenti particolari della storia quando il Paese e i
partiti
erano in evoluzione. Allora, chi cambiava partito lo faceva fra una
legislatura
e un’altra e non durante la legislatura per la quale era stato eletto.
Da quando
si sono consolidati i partiti
Democratico e Repubblicano come li conosciamo oggi, il fenomeno succede
molto
di meno. Ma in tempi più recenti alcuni rappresentanti hanno
cambiato partito
anche durante una legislatura, senza, però, che la cosa fosse
considerata
deplorevole. Anzi. Perché, chi decide di cambiare partito di
solito lo fa ad un
costo per sé. Lo fa per motivi di coerenza, in quanto nei
dibattiti
parlamentari la posizione del suo partito sui vari “issues” è in
contrasto con
quella della sua coscienza e con le promesse che ha fatto e l’impegno
che ha
preso con la sua constituency. Dovrebbe essere questo ciò che si
intende per
democrazia rappresentativa: che rappresenti il popolo e non i partiti.
Editors interested in
subscribing
to this syndicated column may request information by sending an e-mail
to:
giogia@giogia.com
Ritornare alla lista