L’Opinione delle
Libertà, Edizione 76, 11 aprile 2009
Il primo ostacolo
delle malattie rare: la diagnosi
“Potete anche
saltare questa pagina. E’ molto
probabile che non incontrerete mai un paziente afflitto da questa
malattia.” Questa è la descrizione
della malattia rara,
PXE, che molti medici confessano di aver avuto durante i loro studi di
medicina. Non si può neanche dare
la
colpa a chi insegna: con 6,000 malattie
rare documentate dall’Organizzazione Mondiale della Salute, se gli
studenti di
medicina dovessero dedicare anche un minimo di tempo ad ognuna di
queste,
andrebbe a scapito della loro preparazione riguardo alle malattie di
più larga
diffusione. Poco sorprendente, quindi,
che il primo ostacolo che i malati di patologie rare devono superare
è trovare
un medico in grado di dargli una diagnosi.
Questo non fu il
mio caso. La mia diagnosi arrivò
molto
precocemente e accidentalmente e senza sollecitazione né da
parte mia, né da
parte dei miei genitori. Ricoverata in
ospedale all’età di nove anni per una glomerulonefrite per la
quale mi tennero
confinata a letto per tre mesi, un’infermiera notò le lesioni
cutanee sul mio
collo. Per fortuna, da studente il mio
medico aveva avuto la curiosità di leggere quella pagina, e mi
fece portare al
Massachusetts Eye and Ear, un ospedale specialistico a Boston dove una
ricercatrice che studiava la mia patologia era al settimo cielo di
trovare una
paziente in carne ed ossa da esaminare.
Rimasi lì per alcuni giorni a spese loro, cosa più
unica che rara negli
Stati Uniti, dove fecero tante fotografie dei miei occhi che sarebbero
finite
nei libri di medicina. Mi spiegarono i
rischi che avrei dovuto affrontare in un lontano futuro e che non
esisteva
nessuna cura. Poiché non c’era
niente
da fare, proseguii a vivere la mia vita quasi come se niente fosse. Capii che non mi
erano state date le carte migliori e quindi cercai almeno di
vivere una vita sana per evitare altri guai.
Pare che questa scelta di stile di vita possa aver ritardato ed
attenuato la gravità dei sintomi.
Tuttavia non
tutti i pazienti sono così fortunati. Moltissimi si trascinano
per anni da un
dermatologo all’altro, senza mai arrivare ad una diagnosi corretta,
finché non
cominciano a perdere la vista o peggio.
Nel settembre scorso al convegno PXE a Washington conobbi due
giovani
donne (fra 30 e 40 anni e all’apparenza in ottima forma fisica) che
avevano
appena scoperto di avere PXE. Entrambe
avevano avuto infarti cardiaci così gravi che per poco non ci
lasciavano la
pelle. I loro medici decisero di
indagare per capire il motivo dell’accaduto, scoprendo che erano
afflitte dal
PXE. Entrambe le donne riportavano le
tipiche lesioni cutanee al collo. Una
non si era mai fatta vedere da un dermatologo pensando che fosse una
sua
peculiarità. L’altra aveva visto
una
decina di dermatologi in vent’anni, nessuno dei quali in grado di
riconoscere
la sua patologia. I medici ci
raccontano che spesso una domanda a trabocchetto sui test
d’abilitazione alla
professione riguarda proprio il PXE, premiando quei pochi medici (e un
loro
possibile futuro paziente) che decidono di leggere quella famosa pagina
prima
di girarla. Per avere ulteriori
informazioni, fare una donazione o destinare il vostro cinque per mille
alla
ricerca: PXE-Italia Onlus n.
91157050377, www.pxe.org
e www.pxeitalia.unimore.it 3 continua
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