Il nuovo New York state of mind (Legno Storto, agosto 2003)
C’e chi dice che non si può identificare o descrivere il mood, il temperamento temporaneo o permanente di una città, specialmente di una città grande e variopinta come New York.
Sarà senz’altro vero che non si possano stereotipare 8 milioni d’abitanti che condividono lo stesso spazio, però certe impressioni si possono cogliere come generalizzazioni non troppe grossolane.
Mi ricordo la prima volta che sono stata a NYC. Avrò avuto appena 18 anni. Ho cercato di fermare qualcuno per la strada per chiedere direzioni, ma era impossibile incrociare lo sguardo di qualcuno per potergli porre la domanda. Erano tutti indaffaratissimi, col passo deciso.
Finalmente ad un signore che mi passava davanti, guardando diritto davanti a sé, perso nei suoi pensieri, col passo svelto, apparentemente indifferente alla mia presenza, figuriamoci alle mie esigenze, ho sparato la mia domanda lo stesso, pensando che fosse come gridare al vento. Ma invece, no, dopo essermi passato davanti ed oltre, per almeno una decina di passi, di colpo si è fermato, è tornato indietro, essendosi accorto che disponeva dell’informazione che a me serviva, mi ha indicato la strada che dovevo percorrere, si è assicurato che avessi capito, e poi è ripartito con la stessa determinazione di prima.
Dieci anni dopo mi sono trovata a Milano ed è successa la stessa identica cosa. Io che cercavo di fermare qualcuno per farmi dare un’indicazione, nessuno che mi guardava in faccia, uno al quale ho sparato ugualmente la mia domanda, lui che continua a camminare con ciò che sembrava perfetta noncuranza, poi il fermarsi, il tornare indietro, l’adempimento della mia richiesta, l’assicurarsi della mia comprensione, e via a ripartire nel mondo dei suoi impegni impegnatissimi. Uguale tale quale alla scena di New York dieci anni prima.
Queste due esperienze hanno identificato per me un umore comune delle due città che sono per altro molto diverse: due città piene di gente super indaffarata, frettolosa, che non ti guarda in faccia, che non ti sorride perché ha troppe cose per la testa, che, però, in fin dei conti, è disponibile. E ogni volta che ci sono tornata questa mia impressione è stata riconfermata.
Perché racconto tutto ciò? Perché sono appena stata a NYC per la prima volta dall’11 settembre e non ho più avuto quest’impressione. Non ho più percepito queste sensazioni. La gente è, sì, sempre indaffarata e cammina con passo veloce, ma adesso ti guardano diritto negli occhi, ti sorridono, ti salutano come la gente di provincia. Tutti. Quegli che vendono gli hot dogs agli incroci, quegli che fanno i lavori di costruzione per la strada, le commesse nei negozi, gli uomini d’affari in giacca e cravatta. Ti guardano, ti salutano e ti sorridono.
Non so come definirlo. Da una parte sembra che l’11 settembre non sia successo. Dall’altra parte, è come se fosse rimasta addosso alla gente qualcosa di quella schiacciante gentilezza e solidarietà che si era diffusa fra tutto il popolo newyorkese in seguito allo shock che aveva subito.
Persino Ground Zero, se non per una discretissima insegna coi nomi delle vittime chiamati eroi, sembra un luogo di costruzione qualunque. Per chi non conosce bene la zona, è persino difficile immaginare che un complesso d’edifici così imponente potesse stare in uno spazio così ridotto.
Il mood di New York è come un gigantesco rimbalzo, un rifiorire, un entusiasmo, una voglia di vivere, una sfida, un grido di “We shall overcome”. Ed infatti, l’hanno superata.
giogia@giogia.com Ritornare alla lista