Lettera dall'America
Una risposta all’inchiesta del direttore del Diario sul fiasco
elettorale nella Florida.
Mi rendo conto che nello scrivere questi miei commenti su questo giornale vado controcorrente a me stessa. Da americana che vive in Italia da oltre vent’anni, ho sempre ritenuto che i giudizi negativi della sinistra italiana verso il mio paese fossero inverosimilmente iniqui, spropositatamente disconoscenti dei suoi pregi, e ignobilmente ingrati dell’appoggio morale ed economico che il mio paese ha sempre offerto al Suo. Però in questo particolare caso, noi, cioè io e Lei, Signor Direttore, ci troviamo dalla stessa parte della barricata e ci troviamo praticamente soli.
Le scrivo dopo aver letto sul sito di Diario, la sua inchiesta sul voto presidenziale in Florida per dirle che ci sono degli americani usciti da questa vicenda non contaminati dalla malattia collettiva che un Suo intervistato nella Florida ha chiamato: complacency. Noi siamo tutt’ora arrabbiati e sconcertati dal brutto modo in cui sono andate a finire queste elezioni di fine millennio.
La parola complacency in inglese ha un significato positivo e negativo e a volte queste qualità si intrecciano. In ogni modo il contenuto semantico ha poco a che fare con la traduzione letterale che si trova in un qualsiasi vocabolario inglese-italiano: compiacenza. Nel senso positivo, complacency è un essere sicuro di se, una fiducia in se stessi, una consapevolezza del proprio valore. Nel suo senso negativo complacency è l’indifferenza, l’apatia, il menefreghismo. Il suo giovane commesso di libreria ha colto molto bene la doppiezza di questa parola nel descrivere la reazione americana al risultato finale delle elezioni, o a dire meglio, la mancanza di reazione.
Forse è stato Alexis de Tocqueville, ad aver meglio intuito la brutta piega che avrebbe preso la complaceny dei miei compatrioti. Nella “Democrazia in America” scrive “Non posso fare a meno di temere che gli uomini arriveranno ad un punto in cui vedranno ogni nuova teoria come un pericolo, ogni innovazione come un fastidio, ogni progresso sociale come primo passo verso la rivoluzione, e che si rifiuteranno di muoversi in modo assoluto per la paura di essere trascinati via. Mi fa veramente paura questa prospettiva: che saranno talmente assorbiti da un’attrazione codarda ed immediata per i piaceri, che l’interesse per loro proprio futuro e per quello dei loro discendenti svanirà, e che preferiranno seguire in modo domato il corso del loro destino piuttosto che fare uno sforzo repentino ed energetico per mettere le cose nel modo giusto.”
Nel nostro caso quello “sforzo repentino” sarebbe potuto avvenire con un semplice conto manuale di tutti i voti della Florida. Però al paese e ai suoi cittadini non è stata concessa questa necessaria soddisfazione. Gli è stata proibita dalla corte più alta della nazione.
Sì, la verità. Abbiamo sentito ripetere ad nauseam questa parola durante lo scandalo Lewinsky. I repubblicani ritenevano che gli americani non potevano vivere senza sapere la sacrosanta verità su: se, come, e quando il loro presidente abbia avuto un rapporto con una stagista. Invece queste medesime persone pretendono che noi NON pretendiamo di sapere la verità, riguardante la persona per la quale abbiamo votato, e ci chiedono di metterci il cuore in pace senza disturbarci per quest’informazione inutile perché la nazione ha bisogno di “guarire.”
La mia personale reazione è stata, “Ma sono matti!” Come possono pensare che ciò sia accettabile o accettato. Bene, ragazzi, evidentemente, non siamo più quei bostoniani vestiti da indiani che hanno buttato il te nel mare pur di non pagare una tassa non giusta. Purtroppo, Bob Dylan ha di nuovo cantato parole di profezia. I tempi sono decisamente cambiati, ahimè.
Se ci avessero detto che il candidato presidente di un paese del Terzo mondo, figlio del presidente precedente (che era stato anche capo della polizia negretta) aveva perso il voto popolare, ma aveva vinto per i voti di una provincia governata da suo fratello,in cui brogli e in accuratezze erano state la norma del voto; che il fratello aveva impedito di ricontare le schede votate; immaginiamo il candidato presidente lui stesso governatore di una provincia che abbia il peggior record nei diritti umani. Beh, noi americani diremmo, “This could never happen here.” Non portrebbe mai succedere qui. Ma invece è successo qui. E qui sono gli Stati Uniti d’America. C’è poco da stare allegri e c’è ancora meno spazio per la compacency.
Double standards. Durante gli ultimi giorni prima della sentenza della Corte Suprema, girava la notizia nei mezzi di stampa alternativa di una presunta storia fra Katherine Harris, il segretario di stato dello stato della Florida e il governatore (colei che ha certificato in fretta e furia la vittoria di Geroge W. Bush), Jeb Bush, fratello del candidato. Onestamente non credo che siano affari miei o di nessun altro se Bush padre o il figlio Jeb abbiano avuto o no le loro storie extraconiugali. Credo però che se fosse vera la storia fra Katherine e Jeb, il fratello del candidato, il fatto era certo più pertinente all’interesse pubblico di ciò che una stagista portapizza poteva aver fatto nell’Oval Office con il presidente. Ma quello che mi disturba anche è il doppio peso e la doppia misura. Perché di Clinton ho dovuto sapere ogni minimo dettaglio, addirittura la direzione nella quale punta il suo membro?
Perché Clinton ha avuto il bastone fra le ruote dal primissimo momento, sia per quanto riguarda i suoi sforzi di far passare iniziative che riteneva opportune per la nazione, sia per la costante persecuzione giustiziara? Si sono comportati con Clinton come si era fatto con Al Capone: Lo beccheremo in un modo o in un’altro, per un motivo o per un altro, dobbiamo solo indovinare quale. E cosi abbiamo vissuto Whitewater, Travelgate, Monicagate, e più ne ha più ne metta. Li hanno persino accusati d’essere assassini. La loro filosofia: anche se le nostre accuse non sono vere, loro non possono provare che siano false. (E aggiungo che ciò che hanno cercato di fare a Clinton non mi sembra molto diverso da quello che hanno fatto a Berlusconi, cominciando col famoso vertice a Napoli.) E come se non bastasse, e siccome non ci sono riusciti, hanno aggiunto l’insulto all’ingiuria prendendo la Casa Bianca by hook or by crook, usando qualunque mezzo, giusto o non.
Usurpazione e abuso. Pur ritenendo George W. Bush come una delle persone meno preparate ad avere un qualsiasi incarico pubblico (ma perfetta per fare la marionetta come giustamente ha capito il tuo tassista cileno), se avesse vinto le elezioni fair and square, come si dice da noi, se avessimo potuto contare i voti e lui fosse risultato vincitore della Florida anche se non del voto popolare, l’avrei considerato il mio presidente, che mi piacesse o no. This is the American Way. Ma il modo in cui la Corte Suprema ha usurpato il potere del voto dei cittadini americani, e l’abuso ad oltranza di potere che hanno dimostrato il clan Bush e il partito repubblicano sono un’appropriazione indebita che non avrei mai pensato possibile nel mio paese, un furto senza mezzi termini. W non sarà mai il mio presidente. E a pensare come me ce ne sono anche tanti altri.
L’ultimo chiodo sulla bara. L’ultimo atto si è svolto alla sessione del doppio congresso per la certificazione dell’Electoral College. Normalmente questa è una cerimonia noiosa di pura forma durante la quale un membro di ogni stato legge i risultati con quel linguaggio legale che ti fa addormentare. Poi il presidente del Senato chiede se ci sono obbiezioni, e nessuno si obbietta, e così via, andando avanti a ripetere la stessa pappardella per i cinquanta stati. Quest’anno la cerimonia non è stata affatto noiosa, ma gli organi dei media ne hanno a mala pena parlato. Per fortuna, io ho guardato il martellamento di quest’ultimo chiodo dal vivo su C-Span, il canale che trasmette tanti avvenimenti pubblici e politici.
All’inizio della seduta, un rappresentante democratico, Peter Deutsch, ha cercato di chiudere la sessione per mancanza di quorum. Ha anche cercato di fare una dichiarazione riconoscendo il tutt’ora esistente risentimento per ciò che era successo nella Florida. E’ stato messo a tacere dalle proteste dei repubblicani in aula. Ha provato di nuovo. E’ di nuovo lo hanno fatto stare zitto. La mia speranza risvegliata si è vista poi trasformarsi in commozione, quando per ironia della sorte toccava proprio ad Al Gore, come presidente del Senato, dovere farlo tacere. Poi è cominciata la lettura del conteggio per ogni stato, e già pensavo di spegnere. Meno male che mia madre ha insistito a voler vedere l’amara fine fino alla fine. Presto hanno letto il conteggio per la Florida. E prima che Gore potesse finire di fare la sua domanda su se ci fossero o no delle obbiezioni, già era apparso il primo dei tanti che si sarebbero presentati davanti al podium con la loro protesta. Erano quasi tutti, anche se non esclusivamente, membri del Congressional Black Caucus.
Tutti avevano la loro protesta per iscritto, come pretende la legge. Tutti avevano firme di membri del congresso. Nessuno aveva la firma di un Senatore. Nonostante l’inutilità del loro gesto, si sono presentati lo stesso, e quando era finita, hanno cercato di ricominciare. Era una cosa da piangere vedere queste poche persone nere lottare persino inutilmente per ciò per cui dovremmo tutti lottare. Quando è arrivato al podium, Jesse Jackson, Jr, figlio del pastore famoso, ha detto “E’ una giornata triste in America quando non possiamo trovare UN senatore a firmare questa protesta.” Quando toccava alla rappresentante Maxime Waters (D-Los Angeles), prima di sentirsi chiedere se aveva o no la famosa firma di un Senatore, ha risposto, “E non me ne importa niente se non ho la firma di un Senatore,” con l’imponenza della disobbedienza civile predicato da Henry David Thoreau e praticato da Martin Luther King. E c’è stato un momento indimenticabile quando Gore ha perso tutto quella rigidezza per la quale l’abbiamo tutti criticato e le ha risposto con ironia, “Gentile Congresswoman, le risulterà che alle regole invece importa.” È tutti si sono scoppiati a ridere in un momento dolce quanto amaro. Certamente chi lo ha sentito avrà capito quanto abbiamo perso nel non avere lui come nostro presidente.
Poi è arrivato il giorno dell’incoronazione. Fastosa, ma non festosa. Solo il tempo freddo e grigio era in sintonia coi sentimenti della metà della popolazione che non manda giù questi risultati raggiunti in questo modo.
L’autrice vive tra Torino e la Florida e commenta fati italiani e americani sul sito www.giogia.com.
Gennaio 2001
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