Un'altra lettera dall'America
In risposta all’inchiesta del direttore del Diario sulle elezioni
USA
Esiste un detto dalle nostre parti, forse anche dalle vostre, che dice, "tutto ciò che leggi nei giornali è vero, salvo le storie di cui hai conoscenza di prima mano!" Ecco, più o meno è così anche per la televisione. Uno s'illude che con la macchina da presa sia più difficile dire le bugie, ma invece, l'arte dell'inquadratura gli permette di farci vedere ciò che vogliono, influenzando così la nostra conoscenza dei fatti e le opinioni che ci formiamo in merito. E così fu per la giornata d'inaugurazione del nostro presidente…
In questo caso, come spesso succede, le bugie sono state un fatto d'omissione. Ed erano molte le cose che i network news e i cable news non ci hanno fatto vedere per non guastare una giornata che doveva essere solo festiva e soprattutto patriottica. Così abbiamo visto immagini che quasi quasi potevano essere di repertorio. Anche i reportage del giorno dopo sulle pagine dei quotidiani, potevano essere stati scritti prima e uno si chiede come è venga adesso concepita l'idea di che cosa costituisca una "notizia." Certamente non era notizia il fatto che l'inaugurazione abbia avuto luogo il 20 di gennaio, 4 anni dopo quello precedente. Sarebbe stato una notizia se non fosse successo. O che Bush abbia fatto il giuramento davanti a William Rehnquist e che sua moglia abbia tenuto in mano la Bibbia di famiglia.
Le notizie vere, quelle meritevoli della parola, non hanno ottenuto grandi titoli. Le abbiamo trovate sepolte nelle pagine interne o le abbiamo conosciute nei giorni successivi sotto forma di pensiero di riflessioni o note in calce. Frank Rich, editorialista del NYT ci ha raccontato, nelle pagine virtuali di Slate Magazine, che era cresciuto a Washington e che mai aveva visto i palchi così vuoti durante un'inaugurazione, neanche con il tempo meteorologico peggiore. I manifestanti, che avrebbero potuto riempire quei palchi, hanno preferito protestare lungo tutto il percorso della parata fino all'ultimo isolato che era precluso a chi non possedeva biglietto. Forse è l'unica parata inaugurale, esclusa la seconda di Nixon, in cui il presidente ha scelto di non camminare per gli ultimi isolati del percorso.
Meritava un titolo il fatto che per entrare bisognava passare ben 10 posti di controllo o che quando ha cominciato a grandinare che in inglese si dice "hail," i dimostranti hanno giocato col omonimo "hail" che vuol dire "saluti" e anche con la rima gridando "Hail to the Thief" (saluti/grandine al ladro) anziché il solito "Hail to the Chief"! Era una notizia che il percorso è stato cordonato in modo tale che nessuno poteva camminare lungo Pennsylvania Avenue e che c'erano delle zone dove alla gente è stato proibito di lasciare la sua area. Faceva notizia che questa sia stata la più grande protesta dalla seconda inaugurazione di Nixon. Ma almeno allora erano tempi di protesta per una guerra prolungata, non un periodo di benessere economica come il presente!
Forse i partecipanti alla manifestazione non hanno guadagnato i titoli per colpa o merito di ciò che non hanno fatto. Queste folle di Americani impazziti per la democrazia che sono arrivati da tutta la nazione per protestare contro il dirottamento della presidenza non si sono scontrati con violenza con la polizia. Queste masse di cittadini non-teppisti non sono stati arrestati dalle forze dell'ordine che da parte loro non hanno trovato necessario usare il gas lacrimogeno o pallottole di gomma. Insomma, i 1,600 poliziotti del Distretto di Columbia e i 5,000 importati da altri distretti erano una forza esagerata per i 20,000 dimostranti, solo un terzo dei 60,000 mila nei tempi di Nixon. I neri non erano militanti e non hanno capovolto e bruciato machine parcheggiate per strada. I residenti della Florida defraudati del voto che hanno fatto il viaggio fino alla capitale non hanno fatto esibizioni di rabbia. Non hanno predicato l'anarchia. Alle loro riunioni non hanno incitato al tumulto con retorica infiammante. Forse è per questo che la loro storia è stata relegata ai giorni successivi quando non ignorata.
Il discorso di Bush.
Chi sentiva il discorso di Bush senza conoscere l'uomo poteva facilmente lasciarsi sedurre da una argomentazione così eloquentemente elaborata nella sua forma e colma di principi nel suo contenuto. Principi alti come la compassione, inclusione, civiltà e giustizia.
Ha cominciato raccontando l'America come una storia di alti ideali: "un nuovo mondo che è diventato amico e liberatore del vecchio… una società che aveva schiavi diventata servitrice della libertà… una potenza che è andata nel mondo per proteggere e non per possedere, per difendere e non per conquistare."
Ha parlato del più grande di questi ideali: "realizzare la promessa americana: che appartiene a chiunque, che chiunque merita una possibilità, che non è mai nata alcuna persona priva di significato." Salvo forse quelli defraudati dal loro diritto di voto?
Ha ammesso che abbiamo dei problemi sociali in forte dissonanza con quelli ideali: "A volte le nostre differenze sono tanto profonde da far sembrare che noi condividiamo un continente e non una nazione."
Ha ricordato che le differenze sono sempre stata la pasta di cui l'America si è fatta: "Ogni immigrato, abbracciando questi principi, rende la nostra nazione più americana enon meno."
Parole straordinarie dall'inizio alla fine. Ma purtroppo abbiamo già una certa esperienza di quest'uomo, e ne stiamo acquisendo un'altra che non toglie l'impressione di surreale che ci permaneva sentendo quelle parole proprio dalla sua bocca. Forse è il suo fabbro di parole, Michael Gerson, che dovremmo avere come presidente. E' lui il vero conservatore compassionevole, che esprime in modo così sentito le difficoltà dei poveri ed il dovere dei cittadini di compatire il carico e le fatiche altrui. Di Bush è più credibile pensare che il suo discorso sia servito da velo per nascondere la sua vera agenda più meschina e ideologica.
Se davvero Bush ha voglia di unire e non dividere il paese, se davvero crede che ogni persona è significativa, se davvero desidera di cuore di dissolvere le differenze che dividono la nostra società, allora perché ha scelto un personaggio come Ashcroft per rappresentare la giustizia della nazione? Perché ha scelto una persona che ha un bagaglio di fanatismo religioso, segni di razzismo, e pregiudizi anti-abortisti e anti-gay? Perché ha scelto qualcuno di tale dubbia reputazione che il comitato giudiziale del Senato ha dovuto sentire per alcuni settimane testimoni di difesa e accusa. Io ho ascoltato personalmente quasi tutta quella testimonianza e quella che era meno credibile di tutte era proprio quella di Ashcroft, con le sue risposte vaghe, o risposte non-risposte.
Se davvero Egli crede che "la crescita delle prigioni, benché necessaria, non sostituisce nelle nostre coscienze il bisogno di speranza e ordine nelle nostre anime" perché è proprio il suo stato quello che tiene il primato della punizione e eliminazione dei carcerati anziché la loro riabilitazione?
Se davvero Bush ha nel profondo della sua coscienza "che la persistente povertà non è degna della nostra Nazione" perché propone un programma di taglio dei tassi che va a beneficiare soprattutto chi ne ha meno bisogno?
Come facciamo a credere che i programmi di assistenza per le "faith-based organizations" siano un disegno per mettere i soldi nelle mani dei veri bisognosi e non in quelli delle organizzazioni d'ultra-destra religiosa che gli hanno dato tanto appoggio nella sua campagna elettorale?
Come facciamo a non sospettare che il solo chiamarli con un tale eufemismo "programmi basati sulla fede" anziché "organizzazioni religiose" quali esse che sono, non sia un metodo per camuffare la verità riguardante i fini e le motivazioni?
Non è difficile indovinare dove risiedono i sentimenti dei costituenti del nuovo presidente. La folla di repubblicani raccolti per sentire il discorso di Bush hanno applaudito con contegno e cortesia quando ha espresso i "suoi" pensieri riguardo i poveri, ma il chiasso delle mani battenti era assordante quando ha promesso di tagliare le tasse!
In ogni modo ciò che mancava clamorosamente dal discorso di Bush era una parola per quelli che sono tutt'ora convinti che il suo modo di arrivare al trono sia stato ingiusto e poco democratico, un minimissimo accenno di riconoscimento al fallimento elettorale nella Florida.
I tenenti di Bush sono convinti che il concedere qualunque cosa circa la natura delle elezioni potrebbe indebolire la capacità del presidente a governare e suscitare domande riguardo alla sua legittimità. Ma hanno torto. E' vero, invece, il contrario.
Ogni qualvolta i repubblicani alzano la voce volendo far intendere che possono fare ciò che vogliono perché hanno vinto loro le elezioni, c'è un coro dall'opposizione che dice "non è vero." Poi loro ribattono con il mantra "get over it" come dire "accettatela", "guarite," "volete finirla?"
Francamente no. Non la vogliamo finire. Da quando la corte poca suprema ha selezionato il nostro presidente, hanno cercato di farci credere che sia anti-americano non accettarla, quella selezione. Noi, di non faith-based credenza democratica, crediamo invece il contrario. E' il nostro patriottismo che non ci permette di mandare giù il loro dettato, di non dimenticare e di non lasciare che loro dimentichino il modo poco convenzionale che li ha messi dove sono.
Ho sentito un'intervista con Jimmy Carter nella quale ha detto con arte ironica che la presidenza di Bush è legittima, qualificandosi in questo modo: Sono le corti ad avere l'ultima parola sulle leggi e quella suprema ha l'ultimissima di parola, quindi, in questo senso puramente formale, sì, la presidenza di Bush è "legittima."
Il 13 di gennaio è uscita una pagina intera di pubblicità sul "New York Times," firmata da 524 professori di legge proveniente da 115 università. Hanno comparato i giudici della Corte Suprema a dei propagandisti che hanno soppresso i fatti, comportandosi come proponenti politici per il candidato Bush e non come giudici.
Margararet Jane Radin, una professoressa di legge della prestigiosissima Stanford University e organizzatrice del gruppo, mi ha detto che continuano a raccogliere firme da altre università. (Adesso sono 655 professori da 134 università.) Ciò che sperano di fare è: continuare a ricordare al pubblico ciò che loro indicano come difetti nel percorso di Bush alla Casa Bianca. No, non siamo dei pazzi, né siamo dei cattivi perdenti. Siamo solo dei buoni cittadini preoccupati per lo stato della democrazia nel nostro paese.
Febbraio 2001
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