Uno scrittore
nato
Giovannino
Guareschi, scrittore e giornalista
Un umorista dalle
grande dirittura morale
di Sandra
Giovanna Giacomazzi
Quest’anno
duemilaotto
è particolarmente ricco di anniversari da celebrare o
dimenticare, secondo il
caso, per la cultura e la storia italiana con tutti i libri, le
conferenze e i
convegni che circondano tali scadenze.
Fra i tanti ci sono: il centocinquantesimo anniversario della
nascita
del compositore, Giacomo Puccini, il sessantesimo anniversario della
Costituzione italiana, il quarantesimo anniversario di quel famigerato
’68 e il
trentesimo anniversario dell’assassinio di Aldo Moro.
Ci voleva, però, il Centro Pannunzio per ricordare il
doppio
anniversario dello scrittore, giornalista ed umorista, Giovannino
Guareschi, a
cento anni dalla sua nascita il primo maggio del 1908 e a quarant’anni
dalla
sua morte in quello stesso sciagurato ’68 per il quale la sua morte fu
allora
ignorata com’è oggi dimenticata. E
se
la cosa ci rattrista non ci sorprende.
Già allora, le malelingue dell’Unità scrissero:
“E’ morto uno scrittore
che non era neanche mai nato.” Fu un
giovanissimo Pierfranco Quaglieni, l’attuale presidente del Centro
Pannunzio,
uno dei pochissimi a scrivergli un necrologio degno, pubblicato su “La
Mole” e
intitolato affettuosamente, “Addio, Giovannino”. Altrimenti
la sua morte fu ignorata di proposito, sepolto
nell’indifferenza generale. Al suo
funerale c’erano pochissime persone, nessun politico e quasi nessun
collega.
Di Guareschi si
può capire il senso della famiglia e della nazione dagli oggetti
che ha voluto
nella sua tomba: le prime scarpine dei due figli e la bandiera con lo
scudo
sabaudo. Chi lo tacciò di fascista per la scelta di quel
tricolore o per altro
come, per esempio, il film intitolato “La Rabbia”, girato “insieme” a
Pasolini,
ignora o fa finta di non sapere come finì sotto le armi proprio
per aver
ridicolizzato Mussolini e i suoi, o come capitò nei campi di
concentramento
proprio per il suo rifiuto di collaborare col regime.
Non era un uomo della casta. Avrebbe sacrificato la
libertà del suo corpo altre due volte pur di non sacrificare
quella del suo
pensiero. Come quando fu condannato in
appello con l’accusa di vilipendio al Presidente della Repubblica,
Luigi
Einaudi, per la vignetta nella quale aveva raffigurato i corazzieri
davanti al
Quirinale in forma di bottiglia di “Nebiolo”, così denunciando
come Einaudi
avesse utilizzato il suo ufficio pubblico per scopi commerciali e
avesse
commesso uno abuso chiamando quel vino “del Presidente”.
O quando, nel 1954, pubblicò le due lettere
di De Gasperi nelle quali De Gasperi aveva invitato gli alleati a
bombardare
Roma per accelerare la fine della guerra e la liberazione.
Quando il magistrato di Parma lo condannò
senza porsi il problema di una perizia calligrafica, prese lo zaino e
si recò
alla prigione commentando: “No, niente appello. La mia
dignità di uomo
libero, di cittadino e di giornalista libero è faccenda mia
personale e, in
questo caso, accetto soltanto il consiglio della mia coscienza.
Riprenderò la
mia vecchia e sbudellata sacca di prigioniero volontario e mi
avvierò
tranquillo e sereno in quest’altro Lager. Ritroverò il vecchio
Giovannino fatto
d’aria e di sogni e riprenderò, assieme a lui, il viaggio
incominciato nel 1943
e interrotto nel 1945. Niente di teatrale, niente di drammatico. Tutto
semplice
e naturale. Per rimanere liberi
bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della
prigione.” Nessuno fece una tragedia per
proteggere la
sua libertà di dire la verità come fecero invece in tanti
perché Enzo Biagi
potesse continuare ad avvelenarci con le sue menzogne.
Il Centro
Pannunzio ha celebrato il duplice anniversario dell’autore meglio
conosciuto
come il creatore di Don Camillo e Peppone con tre iniziative: una
conferenza al
Circolo degli Artisti di Torino dedicata alla sua vita e il suo impegno
politico, un’altra conferenza in sede, sempre a Torino, indirizzata ai
due personaggi
più famosi delle sue opere, e un pellegrinaggio ai luoghi di
Guareschi nella
Bassa Parmense.
Per
la conferenza
presso il Circolo degli Artisti il condirettore del Centro, Dante
Giordanengo,
ha preparato e proiettato una
carrellata delle vignette dell’umorista, che mostrava le tappe
più
significative della sua vita e il suo spirito senza compromessi, come
per
esempio, quando nel 1943 fu imprigionato in alcuni campi di
concentramento in
Polonia e Germania con altri 5,000 soldati italiani, dove
sfruttò il suo senso
di umorismo e ottimismo per tener alto il morale degli altri internati. Di quei tempi scrisse “Non abbiamo vissuto
come bruti. Non ci siamo richiusi nel nostro egoismo. La fame, la
sporcizia, il
freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei
nostri
figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci
hanno
sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, con un
passato
e un avvenire.”
Poi
altre
vignette dal settimanale “Candido”, di cui fu fondatore e direttore
insieme a
Giovanni Mosca, come quella che è ritenuta aver dato una mano
alla sconfitta
dei comunisti nelle elezioni del ’48.
Quella che raffigurava lo scheletro di un soldato italiano
dietro il
filo spinato con tre simboli nel cielo nero: la falce e martello, la
stella
rossa dell’URSS e il busto di Garibaldi, con la didascalia in alto:
“100,000
prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia” e in basso: “Mamma
votagli
contro anche per me.”
Sempre
in sede di
conferenza la professoressa Ornella Pozzi ha letto ad alta voce un
commovente
racconto pubblicato nel “Candido” intitolato “Colpo di stato”. La storia di “un uomo alto” che passeggia
nei boschi delle montagne svizzere e finisce oltre frontiera, colpa di
una
birichinata di sua figlia che vuole “tastare” l’Italia.
Ospitati a tavola da una famiglia umile,
l’uomo alto si dimostra più umile ancora.
Il racconto fa la spola fra: scene di toccante modestia e
reverenza fra
la famiglia e i loro illustri ospiti, e il comico e ridicolo subbuglio
creato
nei palazzi dei ministeri romani per un temuto colpo di stato del mai
nominato
re.
Le
tappe del
viaggio pellegrinaggio alla scoperta del mondo piccolo di Giovanni
Guareschi ha
toccato i luoghi in cui Guareschi è nato e vissuto e dove erano
ambientate le
sue opere più celebri. La prima
tappa a
Roncole Verdi per rendere omaggio alla sua tomba e visitare il vecchio
ristorante convertito in museo dove i suoi figli hanno allestito una
mostra
antologica permanente dedicata allo scrittore, una visita che varrebbe
la pena
di inserire nei famosi Pof (Piani di Offerta di Formazione) scolastici. La seconda tappa a Fontanelle di Roccabianca
dove si trova la casa in cui nacque proprio il primo maggio, nel
edificio che
ospitava anche le cooperative della Bassa Parmense e dove, avvolto in
un
fazzolettone rosso, fu presentato alla platea di socialisti nella
piazza dal
fondatore, Giovanni Faraboli, con le seguente parole trionfante: “Gente, oggi è nato un nuovo compagno”. Guareschi non poteva ricordarlo, ma tanto
gli avevano raccontato, che di quel giorno scrisse, “intatto mi
rimarrà nella
carne il tepore delle mani forti di Giovanni Faraboli.”
Di fatti, fu proprio lui ad ispirare il
personaggio di Peppone.
Ancora
oggi
Guareschi non appare nelle antologie scolastiche. Nella
sua “Storia della letteratura italiana” Giulio Ferroni gli
concesse una riga: “Non ha valore né letterario né
culturale.” Snobbato
dall’intellighenzia invidiosa, Giovannino Guareschi, come Oriana
Fallaci,
trovano un posto più nobile nei cuori dei loro lettori. Sono gli autori italiani più letti e
più
amati, tradotti in tutte le lingue del mondo dove i nomi dei loro
critici
neanche si conoscono.
giogia@giogia.com Ritornare alla lista