Recentemente mi sono buttata nella fossa dei leoni andando ad una conferenza intitolata “Cose’è l’antiamericanismo?” alla Fondazione Gramsci di Torino. La mia impressione generale era di essere finita in una gabbia di matti, anche se sono stati avanzate alcune teorie che trovo condivisibili.
Una delle persone del panel si è presentata come femminista, pacifista, ed anti-globalista. Si vede che il detto “non ci sono due senza tre” vale non solo per le disgrazie ma anche per le imbecillità. Diceva di trovarsi in imbarazzo a parlare ad una conferenza che portava un tale titolo, poiché non condivideva l’utilizzo di quest’aggettivo per descrivere gli Stati Uniti, trovandolo un sopruso, un’arroganza, una disistima per i canadesi, i messicani, i colombiani, e venezuelani, e tutti gli altri abitanti di quel continente.
Ha detto, poi, con aria di gran generosità, che lei non ce l’aveva coi cittadini americani, ma con il loro governo. Anzi, aveva avuto modo di leggere un recente articolo di Noam Chomsky che aveva trovato “confortante” e rappresentativo della parte migliore del popolo americano!
Dopo i vari interventi, il pubblico è stato invitato ad intervenire o porgere domande. Io, che mi trovo molto più a mio agio con carta e penna che col microfono, in quest’occasione non ho potuto trattenermi.
Ho fatto presente alla signora di aver già sviluppato una certa consapevolezza della sensibilità degli altri verso la nostra “appropriazione indebita” dell’aggettivo “americano”. Ma è anche vero che, quando, sentendo il mio accento la gente mi chiede se sono inglese e io rispondo che sono invece degli Stati Uniti, sono proprio loro a dirmi in modo esclamativo, “Ah, allora sei americana!” Le ho chiesto poi come dovevamo chiamarci secondo il suo parere. Gli altri abitanti del continente hanno un aggettivo con il quale si auto descrivono: i cileni, i brasiliani, i costaricani. Noi invece come dovremmo chiamarci? Unitiani? Statisti? “Piacere di conoscerla, io sono statunitense.” Ma mi ridono in faccia! E in inglese come lo dico? Arrampichiamoci sui vetri per inventare un altro neologismo che non vuol dire niente a nessuno per soddisfare quelli della religione del politcal correctness? Poi, francamente, dopo l’11 settembre, mi è passata la voglia di camminare sulle uova della sensibilità altrui. A dire la verità, il mio Paese si chiama the United States of America. Quest’ “America” l’abbiamo messo nella nostra ragione sociale. Se gli altri volevano farsi chiamare americani, avevano solo da metterlo nella ragione sociale anche loro. I canadesi potevano chiamarsi the Canadian Provinces of America. Ma non l’hanno fatto. Peggio per loro. Basta. Io sono americana e non ho voglia di chiedere più scusa a nessuno.
Le ho spiegato anche che lei faceva male a voler bene agli americani pensandoli come il suo preziosissimo Chomsky, perché Chomsky non rappresenta il mio paese ed i suoi cittadini. La stragrande maggioranza non sa neanche chi sia. I miei concittadini non conoscono le sue idee e se le venissero a sapere sarebbero inorriditi di scalpore. Lo considererebbero un candidato, insieme a Gore Vidal, per un processo d’alto tradimento con minima pena: il ritiro della cittadinanza.
Le ho anche riferito che, essendo il mio Paese, un Paese democratico, il suo governo invece, sì, che rappresenta i suoi cittadini. A questo punto sono stata contrastata da qualcuno nel pubblico che mi ha detto che non potevo considerare il governo del mio Paese un governo democratico quando solo il 20% dei suoi cittadini vanno a votare. Ho risposto a quest’interlocutore che innanzi tutto le sue cifre erano sbagliate, ma soprattutto era sbagliato il suo ragionamento. Da noi l’andare a votare è un diritto, non un dovere. Si spera che i cittadini provino un senso civico doveroso in riconoscenza del privilegio di cui godono, ma non si impone con sanzioni, o ricatti che compromettono carriere per via delle graduatorie nei concorsi pubblici, come succede in Italia. Né facciamo come si faceva nell’Unione Sovietica dove tutti andavano a votare ma per un solo partito!
I discorsi che ho trovato condivisibilI erano avanzanti invece da Massimo Salvadori, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Torino. Diceva che l’America spesso è odiata solo per il semplice fatto che è grande, per il suo strapotere, per il senso di inferiorità che gli altri Paesi hanno nei suoi confronti e per il disagio di chi si sente in debito per i suoi aiuti e proprio a causa di questo disagio nega la sua gratitudine. E anche, paradossalmente, per un complesso di superiorità degli europei nei suoi confronti che gli fa recitare i soliti luoghi comuni: che è un paese giovane, senza storia, e senza un’esperienza politica.
Queste sono ragioni già sentite. Ciò che ha detto, invece, che a me è parso nuovo è che l’antiamericanismo non è altro che l’altra faccia del filoamericanismo. Che i due campi peccano dello stesso peccato, cioè d’eccessiva emotività. Uno vede solo la lista delle sue bontà, e l’altra solo le sue cattiverie. Uno percepisce solo i meriti, l’altro solo i demeriti. Uno pretende che rappresenti il Bene, l’altro il Male. Questo modo di ragionare senza ragionare, secondo il proprio mito, riduce la possibilità di fare un vero dibattito politico. Motivando i discorsi in base al sentimento filo o anti che sia, piuttosto che in base ai contenuti, si squalificano gli argomenti a colpi di stereotipi.
Chi odia il mio Paese, perché non sopporta l’idea di un’unica superpotenza, dovrebbe ricordarsi che mai nella storia dell’umanità una superpotenza ha gestito il suo potere con tanta circospezione. Non lo dico perché sono americana perché riesco anche ad essere ipercritica del mio paese quando ritengo che sia giusto esserla. È anche per questo che ho trovato molto giusto il parallelismo fatto dal Professor Salvadori.
Io non avevo mandato giù la maniera in cui si sono svolte le ultime elezioni nel mio Paese. Ho scritto 4 articoli condannando il modo in cui è stato eletto il nostro presidente. Non era accettabile per me che proprio noi, che rappresentiamo la democrazia quintessenziale per tutti i Paesi democratici del mondo e per tutti quelli aspiranti a diventarlo, permettessimo che fosse la Corte Suprema ad eleggere chi ci doveva governare. Mi preoccupavo di come avrei tenuto la testa alta davanti ai miei amici di sinistra in Italia. Ero in Florida prima, durante, e dopo le elezioni e ho vissuto in prima persona gli imbrogli che sono successi, molti dei quali non sono neanche stati riportati dai giornali italiani. Ho firmato altri 4 articoli criticando i modi ottusi della politica estera del nuovo presidente. E ho pubblicato il mio primo articolo in un giornale italiano, un giornale di estrema sinistra, perché, ed è questo il punto, quelli più idonei al mio modo di pensare non volevano evidentemente sentire critiche riguardanti il Paese che per loro rappresenta il meglio. E avete ragione. È indubbiamente il meglio, ma non è infallibile. Ed un fallimento elettorale come quello che abbiamo vissuto era per noi inaccettabile e ha rischiato di dividere gli americani come non sono mai stati divisi dai tempi della Civil War.
Il direttore del Diaro della Settimana, Enrico Deaglio, è venuto a casa mia in Florida. Ha scritto il suo pezzo sui disguidi in Palm Beach County ed il riconteggio in corso presso the Miami Herald. Ed io ho scritto una risposta. Io non credo di condividere altre opinioni con Deaglio, soprattutto per quanto riguarda il governo italiano ed il nostro Presidente del Consiglio, che ho avuto il piacere di conoscere, che stimo, e che ho votato, e invece che lui demonizza. Ma in quest’istanza io e Deaglio ci siamo trovati dalla stessa parte delle barricate ed io ho firmato un articolo nel suo giornale intitolato, “W non è il mio presidente.”
Bene, dopo l’undici settembre, George W. Bush è diventato il mio presidente. Non è che io abbia perso le mie facoltà critiche. Intanto George Bush è cambiato. Ha pensato di correre sulla cresta dell’onda del successo economico degli anni novanta, e invece si è trovato a dover gestire il periodo più difficile che gli Stati Uniti non abbiano mai vissuto. Ha dovuto farsi scuola e sta facendo un lavoro egregio. Ma non è solo per questo che è diventato il mio presidente. È per quel forte senso di patriottismo che non sapevo neanche fosse presente in me. E come me, tanti altri americani. Era lì dormiente, scontato e dimenticato. Un sentimento che mi è stato instillato da piccola, da un insegnamento civico, e da un contatto giornaliero con istituzioni che funzionano e che sono effettivamente al servizio del cittadino. Per voi è impossibile capire questo forte legame con la Patria. Voi sentite un forte legame per le vostre famiglie, per i vostri partiti, ed alcuni di voi hanno scoperto recentemente di sentirla verso il mio Paese, più che verso il proprio. Ciampi ha un bel da fare, uno sforzo nobile, a girare l’Italia cercando di istillare l’amore per la Patria nel cuore degli italiani.
Avrebbe più probabilità Berlusconi di far germogliare questo sentimento negli italiani, cambiando le istituzioni, facendo in modo che rispondano alle esigenze dei cittadini. Questo, ovviamente, se lo lasciano fare. E forse è per questo motivo che quelli di voi che sono filoamericani non hanno voglia di sentire critiche per le cose che effettivamente non vanno nel mio Paese. Fate già molto fatica a far rispettare la volontà del vostro popolo. Con gli ex, post, rifondati, e mai rinnegati comunisti che osanno ficcare la parola “democratica” nei nuovi nomi dei loro partiti, ma che in realtà sono tutt’altro che democratici, che stentano ancora a capire chi ha vinto le elezioni, è chiaro che per voi le cose che non vanno da noi sono una distrazione che non vi potete permettere.
Gennaio 2002
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