Italian Perspectives                                                              
by Sandra Giovanna Giacomazzi 

L’Opinione delle Libertà, Edizione 174 del 11-08-2007

Non ci si attende nulla di risolutivo dalla missione di peacekeeping nel Darfur

La pace che non c’è

L’Onu è destinata ad assistere al massacro. Per le sue stesse regole

di Sandra Giovanna Giacomazzi

La settimana scorsa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’invio di 26.000 soldati nel Dafur, la regione occidentale del Sudan dove almeno 200.000 persone sono state uccise negli ultimi quattro anni dai Janjaweed, un gruppo di milizie armate appoggiato dal governo Sudanese. Come di consueto le vittime sono soprattutto donne, bambini e anziani assassinati con i metodi più ripugnanti, i loro villaggi bombardati e i loro corpi colpiti, violentati e massacrati. I responsabili appartengono a tre gruppi etnici africani, neri e mussulmani, i Fur, i Zaghawa e i Massaleit. La risoluzione è riuscita a passare solo perché la Cina ha deciso di non porre il veto. La Cina è il maggior importatore di petrolio del Sudan e non voleva mettere a repentaglio i giochi Olimpici dell’anno prossimo con minacce di boicottaggi. Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e molte organizzazioni per i diritti umani hanno definito la situazione nel Dafur un “genocidio”.

Le Nazioni Unite continuano ad usare il termine più blando “crimini di guerra”. Infatti la risoluzione passata la settimana scorsa è palesemente debole. In essa si legge che le forze dell’Onu dovranno rispettare la sovranità sudanese. Ciò significa che il governo che fino ad ora ha permesso il massacro potrà decidere dove i soldati dell'Onu potranno andare. Per di più sarà anche proibito ai caschi blu di disarmare i Janjaweed. Sono autorizzati solo a “monitorare se ci sono armi presenti”, il che in passato ha sempre significato: assistere al massacro. Insomma, si sta ripetendo lo stesso scenario che si è già visto ogni volta che vennero impiegate le truppe dell'Onu, dal primo dispiegamento dei caschi blu nel Medio Oriente nel 1956. Se ne potrebbe fare un lunghissimo elenco ma stiamo a quelli più recenti e memorabili. Nel 1995, un quarto di un milione di persone, per di più musulmani bosniaci, sono stati sterminati in Bosnia. Anche in quel caso, per non offendere la sovranità della Jugoslavia, un membro dell’Onu, che stava commettendo i soliti “crimini di guerra”, i soldati hanno fatto poco più che osservare il genocidio che stava svolgendosi sotto i loro occhi, dentro il perimetro della “zona sicura” creata dalla stessa Onu a Srebrenica.

In Ruanda un milione di persone, soprattutto i Tutsi, sono state uccise mentre le forze Onu guardavano dall’altra parte, prima di ritirarsi dopo che dieci soldati belgi erano stati disarmati e uccisi. I loro ordini, come d’abitudine, non prevedano l'utilizzo della forza. Le Nazioni Unite pretendono il rispetto per la loro base legale e morale. Dal 1948 si sono svolte più di 60 operazioni di “peacekeeping” ordinate dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Circa 130 nazioni hanno contribuito con il loro personale a queste missioni. Ad oggi sono in corso 15 operazioni con un dispiegamento di circa 90.000 uomini provenienti da 108 nazioni diverse. Uno spreco di risorse umane ed economiche enorme se i risultati sono sempre come quelli sopra citati. Forse il punto di partenza degli errori e fallimenti di queste missioni risiede proprio nel loro nome sbagliato. Non si può pretendere di mandare soldati in zone di guerra e aspettare che loro mantengano una pace che non c’è, dar loro armi che non possono usare, limitare le loro regole di ingaggio con la scusa della sacrosanta sovranità delle nazioni. Quando sono le nazioni stesse a permettere o commettere i massacri dei propri cittadini, tali attenuanti servono solo a trasformare i presunti salvatori in complici del delitto.


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