Italia e America, costituzioni a confronto
Una risposta a Teodoro Klitsche De La
Grange
Grazie
Teodoro per l’onore che hai fatto a me,
commentando (12/7/06) il mio articolo sulle nostre costituzioni, e ai
“founding
fathers” del mio Paese che hanno saputo tessere con fatica un documento
che ha
permesso alle tredici colonie di prosperare, crescere e diventare
l’unica
superpotenza mondiale.
Sono rimasta colpita da una cosa che tu hai scritto riguardo al modo in
cui la
“destra” giudichi “buone” le costituzioni che fanno prosperare lo Stato
e la
sinistra quelle che si avvicinano al loro modello ideale, ai loro
sogni. Credo
che con ciò tu abbia proprio colpito nel segno. Nei giorni
immediatamente
precedenti al referendum sono andata ad una conferenza organizzata
dall’Associazione Mazziniana Italiana sul tema “Difendiamo la nostra
Costituzione”. Uno dei relatori era Diego Novelli, l’ex-sindaco
comunista di
Torino. Nonostante che la riforma della costituzione riguardasse
esclusivamente
la seconda parte, ossia i meccanismi che fanno funzionare le
istituzioni, le
sue parole erano dedicate esclusivamente ai principi fondamentali e ne
parlava
con una estasiata reverenza.
Quando
Novelli legge: “La Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano
effettivo questo diritto”, si inebria. Io invece penso a tutte le
persone che
ho conosciuto nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’ Est svogliate,
disincentivate e mortificate da un lavoro obbligatorio e insensato. Quando lui legge: “Ogni cittadino ha il
dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale
della società” si esalta. A me quelle parole ricordano quelle di
Marx nella sua
Critica al Programma di Gotha: “Ognuno secondo le sue capacità;
a ognuno
secondo i suoi bisogni!”
Quando
leggo: “Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali” sono parole che posso condividere. Quando invece
leggo: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e
sociale del Paese” mi preoccupo di uno Stato che interferisce troppo.
Gli uomini che hanno
scritto la Costituzione degli Stati Uniti non hanno
dedicato una sezione ai i diritti fondamentali. Questo perché
ritenevano
sufficiente i diritti che erano già inclusi nelle costituzioni
dei singoli
stati, e perché erano più interessati a trovare soluzioni
pratiche per
l’organizzazione delle istituzioni della nazione nel suo insieme.
Infatti
quest’omissione è il punto contenzioso che ha fatto sì
che alcuni delegati non
firmassero. Ma quando furono aggiunti i dieci primi emendamenti nel
1791 sotto
il nome di Bill of Rights, o Carta dei Diritti, non usarono parole
floreali o
altisonanti. Affrontarono in modo chiaro diritti pratici come “the writ
of
habeas corpus” per evitare l’arresto arbitrario, la proibizione di
leggi “ex
post facto” per evitare l’emissione di leggi retroattive e il divieto
del
“double jeopardy” sull’inappellabilità dei magistrati, diritti
che in Italia
sono ancora a rischio nonostante ben cinquantaquattro articoli fra i
principi
fondamentali e la prima parte della costituzione tanto cari a Novelli.
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