Italian Perspectives
by Sandra Giovanna Giacomazzi
Caso Sofri, ma è proprio il caso?
(L’Opinione, 8 gennaio 2004)
Un’altra fine d’anno all’insegna e all’inseguimento del Caso Sofri.
Pagine e pagine di giornali che se ne occupano. Fiumi d’inchiostro
che si versano come se ci fosse carenza d’altre cronache più impellenti.
Metà della rassegna stampa di Radio Radicale che ogni mattina si occupa
solo di quello. Pannella che inizia ed interrompe l’ennesimo sciopero
della fame in nome della salvaguardia delle istituzioni. Giuristi e
costituzionalisti che vengono convocati ed intervistati e che dicono tutto
e il contrario di tutto. Se sia o non sia esclusiva prerogativa del
Presidente della Repubblica il dare o non dare la grazia. Se sia o
non sia necessaria la richiesta dell’eventuale graziato. Se sia o non
sia indispensabile la richiesta del Ministro della Giustizia o la sua firma
una volta concessa la grazia. Già solo la confusione che regna
intorno alle contraddizioni fra un articolo ed un altro della Costituzione
o sul prevalere della lettera della legge o della consuetudine la dice lunga
sulla necessità di riforme strutturali e di una globale riscrittura
della Costituzione, auspicio espresso ben dieci anni fa dal popolo italiano
in un referendum. Ma questo sarebbe un argomento per un altro articolo,
stiamo sul caso Sofri.
Voi dite, chi tace acconsente. Pur non essendo stata in
Italia durante quegli anni, pur non avendo vissuto quei tempi drammatici,
pur non conoscendo tutti i retroscena che potrebbero spiegare questa smania
di massa di tutti vecchi compagni di merenda di Sofri, se mi consentite,
non acconsento, e quindi, non taccio. Non taccio, non per dare voce
a me stessa ma ad alcune persone con le quali ho avuto contatto, che loro
sì hanno vissuto quegli anni sulla propria pelle.
Conosco una ex-primalineista che per fortuna durante il suo periodo
di errori di gioventù, ha commesso atti non troppo gravi, e quindi
con qualche anno di carcere ha pagato il suo debito alla società.
Però non ha rimosso dalla sua coscienza la cognizione della responsabilità
dei suoi atti nella sofferenza di altri. E con la consapevolezza di
un adulto si rende conto di essere stata vittima dei cattivi maestri di allora,
si preoccupa di quelli di adesso, e non condivide né apprezza l’attenzione
che si rivolge ad una persona come Sofri.
Conosco un padre di famiglia che in quei tempi stava dall’altra
parte, ossia, frequentava il Fronte della Gioventù del Movimento Sociale
Italiano. Molti di loro non erano fascisti, come i compagni li definivano.
Erano anti-comunisti. Ma poi anche se lo fossero stati, non doveva
essere motivo sufficiente per bastonarli o ad inneggiare i slogan di allora
come: “Se vedi un punto nero spara a vista. O è un carabiniere
o è un fascista.” Mi racconta come non riusciva a frequentare
la scuola, lo bloccavano alla porta. Mi ha portato in biblioteca dove
abbiamo guardato negli archivi i vecchi giornali di Lotta Continua.
La parola “fascista” era ripetuta come un mantra in ogni titolo. Impressionante
era leggere i loro vanti: a Palazzo Nuovo eravamo in duemila a “spazzare”
i due facinorosi fascisti, neanche rendendosi conto della ridicolezza delle
sproporzioni! Era raggelante leggere i nomi, cognomi ed indirizzi di
quelli considerati nemici, un implicito invito ai compagni lettori, un’istigazione
alla violenza. Con tali prese di mira poco ci voleva, mi racconta,
a passare dalla politica delle parole a quella delle pallottole. C’è
chi è finito in parlamento e chi in prigione, come Francesca Mambro
e Valerio Fioravanti per i quali nessuno si arrampica sui vetri dei palazzi
per fare leggi ad personam o per chiedere grazie presidenziali.
Conosco un ex-ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione,
ex-preside, a quei tempi professore nella scuola dove era preside la mamma
di Enrico Deaglio, la quale si confidava coi professori raccontando la sua
disperazione di vivere col diavolo in casa. E non si riferiva solo
al figlio ma anche agli amici del figlio fra cui Sofri che era sempre a casa
sua, letteralmente compagni di merenda, svuotando il suo frigo mentre complottavano
la rivoluzione.
Ho un’amica il cui padre faceva parte della classe dirigente di
alcune aziende italiane prese di mira dai terroristi. Ha vissuto la
sua gioventù sapendo che il nome di suo padre stava sulle loro liste
nere, aspettando ogni sera con ansia, insieme a sua madre e ai suoi fratelli,
il suo rientro.
Le testimonianze di queste persone per me sono più eloquenti
delle analisi dei giuristi sui punti e virgola o articoli e commi della Costituzione.
Parlando dell’impasse del Caso Sofri, Giuliano Ferrara dice che
Ciampi e Sofri sono due prigionieri, uno negli uffici di Palazzo Quirinale,
l’altro nel carcere Don Bosco di Pisa. Secondo me, invece, sono due
uomini che condividono un’altra prigione, quella della propria coscienza.
L’uno, al di là delle chiacchiere e consigli che si stanno facendo
intorno a lui con la pretesa di tutti di suggerire ciò che lui dovrebbe
o non dovrebbe fare, per la formalità della lettera della legge o
per la consuetudine, Ciampi si rende conto che, come Presidente della Repubblica
deve rappresentare tutti gli italiani, e che, al contrario di quello che
dice Marco Pannella, gli italiani non hanno passato il Natale aspettando
che Gesù Bambino portasse la grazia a Sofri, né ansimavano
per lo stesso dono con l’arrivo dei Re Magi. L’altro prigioniero, al
di là della sua colpevolezza diretta o non per l’omicidio di Calabrese,
dei suoi tanti processi, della scrittura della motivazione dell’ultima sentenza
che ha ribaltato la sua assoluzione, Sofri sa di avere una colpa ancora più
grande, quella di non aver sporcato le proprie mani di sangue, ma d’averle
fatto sporcare a tanti giovani istigati ed ispirati dalle parole aberranti
di un movimento di cui lui era capo.
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