Italian Perspectives                                                              
by Sandra Giovanna Giacomazzi 

L’Opinione delle Libertà, Edizione 264 del 06-12-2006

Dal caso Mitrokhin al caso Guzzanti

 di Sandra Giovanna Giacomazzi

 C’è una campagna di denigrazione in corso riguardo al lavoro svolto dal senatore Paolo Guzzanti come presidente della Commissione Mitrokhin. Anche Giuliano Ferrara, fingendo di invitarlo ad una puntata di “Otto e Mezzo” per fare luce sui lavori della commissione, non permettendogli di parlare, non ha fatto nessun servizio ai suoi telespettatori. E con Guzzanti, Ferrara ha denigrato anche il lavoro e i dodici anni di sacrifici pericolosissimi che fece Mitrokhin, facendo apparire i suoi archivi come una lista per fare la spesa. Ma vogliamo ricordare chi era Mitrokhin e perché sono così importanti i suoi archivi?

 Durante la Guerra Fredda, Vasili Nikitich Mitrokhin lavorava come capo archivista dell’FCD, il braccio di intelligence estera del KGB, dove aveva la responsabilità di controllare e sigillare circa 300.000 dossier. Durante la sua permanenza al FCD, Mitrokhin, che inizialmente credeva fervidamente nel sistema sovietico, incominciò ad essere turbato dai modi micidiali che il KGB usava sistematicamente per far tacere i dissidenti in patria e all’estero perdendo infine la fede in quel sistema. Piuttosto che permettersi di essere intrappolato al servizio di un sistema che aveva imparato a detestare, decise di approfittare della sua possibilità di accedere ad uno degli archivi più protetti del mondo, compilando un proprio archivio di tutte le operazioni estere del KGB.

Ogni giorno per dodici anni, con il coraggio e la devozione di un uomo con una missione, contrabbandò i dossier, portandoli nella sua dacia in campagna durante i weekend dove li ricopiava diligentemente, nascondendo le sue copie in contenitori di vetro sepolti sotto il pavimento e portando indietro gli originali i lunedì seguenti.

 Nel 1992, fuggì in Lettonia insieme alle sue decine di migliaia di pagine di appunti. Quando Mitrokhin si offrì di fuggire negli Stati Uniti in cambio dei suoi archivi, Langley rifiutò. Con l’Unione Sovietica defunta la CIA non era più interessata a ciò che fecero i maestri dello spionaggio comunista. I britannici reagirono diversamente. Accettarono la sua defezione insieme ai suoi archivi e nell’ottobre del 1996 l’intelligenza militare britannica consegnò ai servizi segreti italiani la sezione di seicentoquarantacinque pagine riguardante l’Italia. In Italia, il dossier fu consegnato alle autorità dello Stato e poi confinato negli angoli più remoti degli armadi, evidentemente con la speranza che lì sarebbero rimasti per sempre finché si trasformassero in polvere.

A metà degli anni novanta Mitrokhin aveva ottenuto la cittadinanza britannica e nel 1995 contattò Christopher Andrew, preside della Facoltà di storia all’Università di Cambridge e uno degli storici più importanti del mondo dell’intelligence internazionale. Insieme scrissero un libro in cui offrirono un racconto dettagliato delle operazioni estere di intelligence del KGB, soprattutto quelle che avevano come bersaglio la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Se non fosse stato per la pubblicazione di questo libro, il dossier che era stato mandato a Roma quattro anni prima, molto probabilmente, sarebbe stato destinato all’oblio per sempre.

 La maggior parte dei media italiani era vergognosamente omissiva nel comunicare la pubblicazione di questo libro e il significato del fatto che il dossier che fu mandato in Italia fu ignorato di proposito. “Il Giornale” fu uno dei pochi a condurre una campagna donchisciottesca in difesa del diritto di ogni cittadino di sapere, di scoprire chi erano le persone che avevano collaborato per decenni con un Paese che era nemico dell’Italia e dell’Alleanza Atlantica di cui l’Italia era un membro strategico.

Paolo Guzzanti fu uno degli editorialisti più assidui nel condannare il “manto di silenzio” con il quale il governo e la stampa italiana sceglievano di ignorare l’importanza particolare che gli archivi di Mitrokhin avevano per l’Italia. E quando, grazie al rigore implacabile de “Il Giornale”, finì il silenzio, la nuova parola d’ordine diventò “minimizzare”.

 Alberto Indelicato ammonì gli storici nullificanti che rifiutarono di considerare le implicazioni del materiale contenuto negli archivi di Mitrokhin, dicendo che furono ispirati dallo stesso principio usato da certi critici letterari per i quali è essenziale non leggere il libro che devono recensire onde evitare di influenzare i loro giudizi preconcetti.

 Per l’allora direttore de “Il Giornale”, Mario Cervi, c’era una nebbia di disagio e riluttanza che librava sopra i palazzi del governo. Dalle bocche dei magistrati non c’era nessuna eco del richiamo “fuori coi nomi” che fu gridato forte e ripetutamente quando il caso Gladio esplose nel ‘90. Eppure se Gladio era, di fatto, un’organizzazione difensiva, segreta e sotterranea, i suoi membri erano colpevoli, se mai, di ultra-patriottismo, non di alto tradimento. Invece gli archivi Mitrokhin rivelarono l’esistenza di un’organizzazione ugualmente segreta e sotterranea, legata e sponsorizzata, non dalla NATO o dagli alleati dell’Italia, ma dal Paese che fu il suo ufficiale nemico politico: l’Unione Sovietica. Se Gladio si preparava a difendere l’Italia dai dolori del comunismo nel caso di un’invasione sovietica, quelli della lista Mitrokhin stavano preparando il terreno per facilitare una simile invasione. Ciò che apprendiamo dagli archivi di Mitrokhin è che questa quinta colonna, questa “Gladio rossa”, possedeva i suoi nascondigli di armi e di trasmettitori radio con i quali avrebbe aiutato i sovietici dall’interno.

Ma è bene ricordare anche i tempi della scoperta di Gladio. Nel novembre del 1990, il governo italiano rivelò l’esistenza di una rete clandestina paramilitare col nome in codice, “Operazione Gladio”. Era l’unità italiana di un esercito segreto che fu creato dalla CIA durante gli anni ’50, il cui fine era di organizzare la resistenza ad un’eventuale invasione sovietica dell’Europa occidentale. La rete Gladio consisteva inizialmente di 622 uomini che furono arruolati in Italia e addestrati in Sardegna dalle intelligence americana e britannica. Furono costituite quaranta cellule che avrebbero operato indipendentemente con responsabilità diversificate quali, sabotaggio, comunicazione, raccolta di intelligence, logistiche per stabilire le vie di fuga ecc. Gladio aveva 139 nascondigli di armi, per lo più nel nordest da dove un’invasione del patto di Varsavia era più probabile. Almeno una mezza dozzina di altri Paesi dell’Europa occidentale parteciparono a quest’operazione finanziata dalla CIA e organizzata dalla Nato.

 Vi ricordate il putiferio che scoppiò nella stampa di sinistra quando si rivelò l’esistenza di quest’organizazione clandestina? E i tentativi vergognosi di cercare di collegare Gladio ad un terrorismo di destra, ai democristiani e alla cosiddetta “strategia della tensione”? Ricordate che l’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, come membro del ministero della difesa durante gli anni sessanta, ammise di aver aiutato ad organizzare le unità Gladio in Italia? E che lo schiamazzo fu tale che nel 1991 Cossiga fu costretto a consegnare le dimissioni anzitempo?

Stranamente non c’era una simile sete di sapere chi furono quegli ufficiali del governo, quei giornalisti, quei diplomatici, quei politici e quei professori universitari che avevano cooperato e che furono sponsorizzati dai sovietici. Perché la partecipazione nei campi di addestramento nell’Unione Sovietica fu considerata come un innocente picnic in campagna e invece essere membro di Gladio costituiva un crimine?

 Nel 1991 uscì un libro di Valerio Riva intitolato “Oro da Mosca” e la stampa di sinistra cercò di sminuire l’importanza del libro. Chiedeva se poteva essere considerata una “notizia” il fatto che Cossutta avesse buone relazioni con i sovietici durante gli anni ottanta. Ma Riva non pretendeva di dare una notizia nuova. Pretendeva di sapere se fosse accettabile che Cossutta e il suo partito facesse parte della maggioranza governativa. Chiedeva perché Cossiga fu costretto a rassegnare le dimissioni mentre a Cossutta fu permesso di restare in parlamento. Perché coloro che fecero una lobby a favore degli interessi dell’Occidente furono processati mentre coloro che tramavano coi sovietici occupano gli uffici pubblici? Chiedeva che senso avesse aver vinto la Guerra Fredda se ai traditori perdenti fu permesso di guadagnare accesso ai ranghi più alti dello stato? Queste erano le domande che fece Valerio Riva nel suo libro. Queste sono le domande alle quali il Senatore Guzzanti pretendeva una risposta presiedendo la commissione Mitrokhin. Queste sono le domande alle quali il popolo italiano avrebbe il diritto di una risposta.

All’epoca Marcello Veneziani propose un modo per chiudere questo capitolo di un passato di accuse reciproche. Ricordando i tempi di quando la punizione per alto tradimento era niente meno che la fucilazione, si chiese come si potessero punire simili crimini commessi durante la guerra fredda. Se era giusto annullare tutto solo perché la guerra fredda era finita. Se si doveva autorizzare una legge di amnesia. Se i crimini commessi da una parte potevano essere bilanciati dai crimini commessi dall’altra, cancellandosi a vicenda come un gioco di reciproco ricatto. La risposta che Veneziani fece alla sua domanda fu che agire così sarebbe un atto pusillanime, un metodo mafioso che non sarebbe servito ad offrire al Paese un nuovo inizio. Suggerì una soluzione che non avrebbe permesso né prigionieri né un colpo di spugna. La sua soluzione prevedeva un’amnistia giudiziaria da un lato e una condanna politica e storica dall’altro. Chi si era sporcato le mani di crimini di questo tipo, non di sangue, ma di ideologia, non sarebbe andato in galera o in esilio, ma non sarebbe nemmeno andato in parlamento o nel governo. Sarebbero andati semplicemente a casa.

 Una soluzione più che accettabile. Il problema è che per attuarla bisogna sapere chi sono i colpevoli. Era questo ciò che la commissione presieduta dal senatore Guzzanti si proponeva di scoprire.
 


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