Carter e il Nobel per la pace (L'Opinione, 25 ottobre 2002)
Il terzo summit dei premi Nobel per la pace tenutosi lo scorso weekend nella sala della Protomoteca in Campidoglio, mi offre giusto un appiglio per affrontare un argomento che avevo evitato, forse per amore e nostalgia della mia gioventù.
Appena seppi della premiazione con il Nobel per la pace al Presidente Jimmy Carter, il mio primo pensiero fu (con la memoria fresca della recente premiazione a Dario Fo per la letteratura) che i svedesi si erano imbarcati oramai sulla strada della degenerazione.
Si è molto detto e ripetuto che il premio a Carter era da intendere come una forte critica alla politica di Bush, anche se fra i membri della commissione c’era chi l’affermava e chi lo negava. Non sarebbe comunque la prima volta che il premio Nobel per la pace fosse assegnato alla nuora perché suocera intenda. Successe nel 1975 quando fecero arrabbiare i Sovietici dandolo all’intellettuale dissidente Andrei Sakharov. Neanche le autorità comuniste in Polonia fecero festa quando lo diedero a Lech Walesa in 1983. Ci fu poi la Cina, scontentissima quando il premio andò al Dalai Lama nel 1989, una critica implicita della loro occupazione del Tibet.
Ho poi pensato invece che forse offrono il premio per la pace per “wishful thinking,” la buona volontà, anche se quella buona volontà è seguito da cattivi esiti. Mi riferivo ad Arafat, ma forse neanche, visto che con lui non c’era né buona volontà, né buon esito, ma solo malafede. Fa più testo Kofi Annan, che l’anno scorso ritirò il premio per le Nazioni Uniti, organizzazione che ha il merito di aver cacciato gli Stati Uniti dalla commissione dei diritti umani preferendo invece il Sudan, Paese baluardo di brividi raccapriccianti in materia. Ma magari fosse solo questo la sua colpa.
Chi può dimenticarsi l’ONU delle mille vergogne: L’ONU che si ritirò dal Ruanda al momento “giusto” nel 1994, lasciando il campo libero agli Hutu per compire i loro massacri. O il vice ministro per l’economia bosniaco, Hakija Turajlic, che viaggiava su un automezzo dell’ONU con tanto di bandiera, e che si recava ad accogliere una delegazione diplomatica. Mai raggiunse la sua destinazione: due carristi serbi bloccarono la strada costringendolo ad uscire dal veicolo, uccidendolo con otto colpi d’arma da fuoco. I caschi blu non fecero una piega mentre fu crivellato. O Srebrenica, la città simbolo della vergogna per eccellenza, dichiarato territorio protetto dell’ONU, dove fu commesso il peggior massacro della storia europea del dopoguerra: 7,500 persone assassinate e fatte sparire in fosse comuni tra il 12 e il 18 luglio del 1995. Ed è solo un assaggio della sua opera ignominiosa. L’organizzazione osannata e premiata nonostante si sia screditata regolarmente. Nonostante che stia sempre di più coi prepotenti e leghi le mani ai giusti.
Quanto a Carter, ho iniziato questo articolo dicendo che mi costava parlare male di lui. È il primo presidente per il quale io abbia mai votato. Prima di allora bisognava avere almeno 21 anni per votare negli Stati Uniti. Vivevo in North Carolina, frequentavo l’università, e avevamo fatto la notte per aspettare e poi celebrare i risultati. Ci sembrava una scelta perfetta: Aveva una laurea in fisica nucleare. Chi poteva saper meglio di lui i meriti e demeriti del nucleare come scelta d’energia per il futuro? Parlava correntemente lo spagnolo, dimostrando un’apertura verso il mondo esterno, soprattutto ai tanti Stati, vicini di casa. Aveva una maniera signorile di porsi al pubblico, non pontificava come i soliti politici. Purtroppo si rivelò come un errore di giudizio di gioventù.
Oggi quando penso a Carter credo che la situazione in cui si trova il mondo attuale dipende in parte dai suoi errori di valutazione. Sto pensando all’Iran degli anni sessanta e settanta ben avviato sulla strada della modernizzazione. E allo Shah, che Carter non seppe salvare dal vento della rivoluzione fondamentalista. Penso a Khomeini e alle ragazze iraniane che dovettero scambiare le mini gonne per il Chador. È da allora che il mondo islamico cominciò la sua marcia regressiva ed inesauribile verso un nuovo medio evo, i danni e i pericoli dei quali il mondo occidentale cominciò a rendersi conto solo l’altro ieri, cioè l’anno scorso. Mi dispiace dare la colpa a Carter, perché il suo cuore certamente non la merita. Mi dispiace anche a causa del posto speciale che tiene nel mio cuore di ragazza. Però come dite voi, di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno, e per questo gli svedesi danno anche i premi.
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