L’Opinione delle Libertà, Edizione 259 del
30-11-2006
Un’analisi del Centro Pannunzio e del Comitato per la libertà
Edgardo Sogno
sulla repressione sovietica del ’56
La grande lezione
della rivolta di Budapest
di Sandra Giovanna Giacomazzi
A cinquant’anni dalla
tragedia umana che fu Budapest ’56, a Torino, in un
convegno promosso dal Centro Pannunzio e dal “Comitato per la
libertà Edgardo
Sogno”, si sono raccontati e analizzati tutti i fatti e i misfatti
intorno alla
brutale repressione sovietica dell’insurrezione del popolo contro il
regime
totalitario comunista.
Il direttore del Centro
Pannunzio, Anna Ricotti, e l’avvocato Ennio Galasso
hanno dipinto la cronologia dei fatti che portarono alla repressione. Giancarlo Lehner ha ricordato come due
“mascalzoni italiani”, Giorgio Napolitano e Sandro Pertini, sono
riusciti ad
arrivare ai vertici delle istituzioni democratiche italiane malgrado
avessero,
nel 1956, celebrato e applaudito la vittoria sanguinosa dei carri
armati
sovietici. Il Professore Giovanni
Ramella ha ricordato le responsabilità della chiesa silente e il
senatore
Francesco Forte ha elencato le tecniche raccapriccianti di tortura
usate contro
chi osava dissentire.
Il Presidente del “Comitato
per la libertà Edgardo Sogno”, Edoardo Pezzoni
Mauri, ha rivelato come Edgardo Sogno, partecipante nella guerra civile
spagnola contro i comunisti e partigiano bianco contro l’occupazione
tedesca
dell’Italia, fu l’ideatore di un programma per salvare i dissidenti
politici in
Ungheria. Ha anche raccontato gli
sforzi inutili del suo Comitato per fare intestare una strada di Torino
in
onore del patriota Sogno quando invece ci sono strade e piazze in
abbondanza
dedicate a chi applaudì la repressione sovietica.
A Torino persino l’aeroporto porta il nome di Pertini.
Il presidente del Centro
Pannunzio, Pier Franco Quaglieni, ha informato il
pubblico non solo dell’uscita di due libri importanti sui fatti di
Ungheria,
“Budapest ’56” di Enzo Bettiza e “ Per quanto abbiamo
sempre avuto poca stima per questa pubblicazione, dobbiamo dare atto al
fatto
che questo numero rende un vero servizio alla memoria.
Intitolato “L’indimenticabile ’56” rapporta
non solo le testimonianze e le rimozioni, ma offre ai suoi lettori la
ristampa
di documenti originali come il famoso “Manifesto dei 101”, molti dei
quali
tolsero la propria firma quando il manifesto fu pubblicato non da
“L’Unità”,
come avrebbero sperato, ma dalla stampa “borghese”.
Al convegno si è
parlato anche del fatto che il comunismo come sistema
economico fu riconosciuto come un fallimento dai suoi stessi promotori
poco
dopo il suo esordio. Il NEP, the New
Economic Policy, già nel 1921 non fu altro che il tacito
riconoscimento di un
fiasco. Si è anche detto come
riforme
dal punto di vista democratico erano impossibile perché la
più piccola apertura
avrebbe portato alla dissoluzione del sistema, come può ben
testimoniare
Gorbociov. E di come tutti i leader
comunisti ne furono consapevoli e per questo ritennero necessarie e
giustificarono le loro repressioni brutali.
Sentendo parlare di tutti i
metodi di tortura, di repressione e di
eliminazione del nemico di allora è difficile non fare una
similitudine con i
fatti di oggi: L’avvelenamento di Alexander Litvinenko, informatore
della
Commissione Mitrokhin, per mezzo del
Polonio 210, un metallo radioattivo. Il
decesso imprevisto e misterioso del colonnello Bonaventura, proprio
pochi
giorni prima di andare a testimoniare davanti alla stessa commissione. L’assassinio a colpi di mitra di Anatoly
Trofimov, generale dell’Fsb russo (prosecuzione del KGB), superiore di
Litvinenko che lo aveva sconsigliato di venire in Italia perché
“l’Italia è il
nido degli agenti sovietici ieri e russi oggi, e dove il nostro uomo di
fiducia, Romano Prodi, è alla guida del governo europeo” e oggi
è alla guida
del governo italiano.
Il Senatore Guzzanti, dice
che è una balla che la guerra fredda sia finita
o che l’abbia vinta l’Occidente. Con
l’uomo dei russi a Palazzo Chigi, il celebratore dei carri armati
sovietici del
’56 al Quirinale ed ex membri delle bande armati in parlamento o nelle
varie
redazioni, siamo tentati di dargli ragione.
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