Italian Perspectives                                         
by Sandra Giovanna Giacomazzi 

Quando per la scuola italiana la "A-word" una parolaccia (L'Opinione, 5 giugno 2003)

Il liceo dove io insegno fa parte della rete di convitti nazionali e quindi l’edificio ospita non solo il liceo, ma anche la scuola elementare e la scuola media. Perciò, a inizio e a fine d’anno si svolgono i collegi docenti unificati con il corpo docente di tutte e tre le scuole. Così a quello di fine anno, abbiamo sentito la relazione della figura obiettivo (un eufemismo per qualcuno che non solo insegna, ma si occupa anche di cose amministrative) della scuola elementare. Bene, questa “figura” ha fatto suo l’obiettivo di capire meglio come i genitori e gli alunni valutino le offerte della scuola e quali potrebbero essere le loro esigenze e desideri futuri, sviluppando un questionario tipo ricerca di mercato. La sua relazione riguardava il risultato dei dati elaborati dal questionario.

Ha aperto la sua relazione con una premessa sulla realtà demografica e sulla necessità di vedere la scuola come un’azienda, per quanta possa non piacerci il termine. Non l’avesse mai detto! La “A word”, pronunciata nel tempio della cultura! Immediatamente si è sentito un sussurrare dilagare per tutta l’aula magna. Talmente era diffuso che il fattore moltiplicativo faceva del sussurro un ruggire da leone, un brontolare d’orso, un rombare d’automobile, se mi permettete questa mescolanza metaforica. Insomma, l’aula era elettricizzata di gente di malumore. Talmente erano fuori dai gangheri i miei colleghi, che aspettavo che scoppiasse un’insurrezione.

Io, nei panni della “figura”, che a proposito ha anche la colpa di essere “fighetta”, sarei scoppiata in lacrime a sentire tanta ostilità. Lei invece ha continuato implacabile. È andata avanti come un carro armato raccontandoci i risultati usando termini come “domanda”, “offerta”, e ha anche osato definire gli alunni e i loro genitori come “utenti”. Alla fine della relazione non sono mancati naturalmente gli interventi dai vari dei custodi del tempio della cultura. Hanno fatto una polemica semantica su quella parola demoniaca “azienda”. Hanno fatto una guerra ferrea sul loro sacrosanto diritto di essere i dittatori dei di tutto ciò che deve essere insegnato e di ciò che non deve essere insegnato nella scuola pubblica italiana, e il loro rifiuto di abbassarsi anche solo per sentire le esigenze degli “utenti” ignoranti, dimostrandosi gente fuori del mondo reale, sepolta in quello scolastico, fossilizzata nella propria arroganza. Non so se se la prendevano con lei perché la sua terminologia era troppo berlusconiana. Alcuni colleghi ritenevano che lo stesso discorso pronunciato dal preside o dal vice preside sarebbe passato liscio. Non so se ce l’hanno con lei perché appunto è bella, perché si mette in mostra, perché si veste in maniera decisamente sopra le righe, in modo inappropriato per la scuola.

L’ammetto anche io, però devo dire che è proprio per ciò che piace al mio spirito libertario, perché aggiunge un pizzico di colore piccante al grigiore della scuola. Ma forse mi è simpatica anche perché, mentre i suoi colleghi passavano ore a far dipingere bandiere arcobalenate ai loro alunni ed a fargli scrivere lettere a Bush pregandolo di non fare la guerra, il tutto esposto sui muri della scuola, tuttora, con la guerra finita e le vacanze alle porte, in piena vista vicino alla sala degli insegnanti, lei invece, con la scusa che insegna inglese, continuava a sfoggiare stelle e strisce e l’Union Jack. Ma tornando al perché non è tanta simpatica agli altri. Forse pecca di un peccato peggiore. Non è popolare fra i suoi colleghi perché è molto popolare fra i suoi alunni. Non sarà un santone della sapienza, ma sa trasmettere il suo entusiasmo effervescente. Ha una qualità che, secondo me, non dovrebbe mai mancare a chi pretende di fare l’insegnante. Non tanto il sapere in sé e per sé, ma la capacità di contagiare agli altri la curiosità di voler sapere.



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